Italia potenza fragile

Per le Nazioni serie la politica estera è da sempre sinonimo di “grande Politica”. Un assioma kantiano su cui da secoli le realtà statuali consolidate difendono o/e estendono i propri interessi nazionali, proiettano logiche di potenza, costruiscono futuro. Decidono un destino.
Non a caso nella sfera anglo-americana, in Francia, nella Russia putiniana, in Israele, in Cina, Australia e Brasile e, da almeno un decennio (con qualche fatica, va detto…), persino in Giappone e Germania il pensiero geopolitico — frutto di spigolosi confronti tra università, accademie militari, centri di ricerca e media —, pesa e spesso indirizza lo scenario culturale e le decisioni politiche. A Parigi le note di “Le Monde Diplomatique” di Ignacio Ramonet, i saggi di “Herodote” di Yves Lacoste e, soprattutto, i lavori delle varie fondazioni hanno un ascolto pari alle analisi dei discepoli di Samuel Huntington e Kenneth Waltz o di Edward Luttwack e Zbignew Brzezinsky a Washington, Londra e Gerusalemme. Un altro assioma: intelligenze e potere.  Ascolto e decisione.
Un dibattito fecondo e importante. Almeno nelle Nazioni serie. Peccato che l’Italia — pur essendo la seconda potenza manifatturiera d’Europa, la terza economia dell’Eurozona, il settimo esportatore al mondo — di “grande politica” non ne voglia discutere.
Le radici dell’irrilevanza 
Da almeno mezzo secolo il nostro Paese ha rinunciato ad essere una Nazione indipendente e sovrana. Passo dopo passo l’Italia ha abdicato ai suoi ruoli — e ai compiti fissati dalla geografia e dalla storia — preferendo delegare responsabilità e (soprattutto) doveri ad altri: all’Alleanza Atlantica, agli USA, a quell’entità astratta quanto occhiuta che risiede a Bruxelles. Alla Germania.
Un processo lento, inesorabile (e talvolta miserabile) frutto di un’iniziale interferenza brutale — e ancor oggi poco indagata — anglo americana. Era il 1959: superati i contrasti (la crisi di Suez) tra “cugini” e (ri)fissate le rispettive zone d’influenza, le talassocrazie atlantiche spezzarono le ambizioni “neo atlantiste” e mediterranee di Gronchi, Fanfani e Mattei, chiudendo la fase iniziale — scoppiettante, velleitaria ma decisamente dignitosa — della prima Repubblica. L’Italia venne richiamata bruscamente all’ordine. Nessuno, o quasi, si preoccupò: Mattei esplose in volo, i socialisti andarono al governo, il “Papa buono” aprì il Concilio, Ippolito finì in galera, l’Olivetti rinunciò alle sue ricerche sull’intelligenza artificiale e la Fiat inaugurò gigantesche fabbriche in Unione Sovietica; il “paese” — come i democristiani morotei e i loro alleati iniziarono sin da allora ha definire la Patria — si rannicchiava in uno stato di “semi protettorato”. Una situazione confortevole e — poiché la Jugoslavia titoista garantiva la prima linea sulla Drava — militarmente poco costosa.
La seconda fase della prima repubblica, contraddistinta dalla rinuncia a qualsiasi proiezione di potenza — una tentazione bellicista intermittente, stramba e tutta italiana che dispiace ai nostri alleati di ieri e d’oggi, ma attraversa e punteggia tutta la storia unitaria dalla Crimea alle odierne c.d “missioni di pace” —, dal basso profilo internazionale e rafforzata dall’appoggio del Vaticano montiniano,  consentì alla DC un opaco ma efficace dominio politico e una sufficiente protezione dell’imprenditoria pubblica e privata: un sistema malato (certamente), corrotto (sicuramente) ma in qualche modo funzionante e, grazie ad una lira “ballerina”, ancora concorrenziale. Sebbene fradicio l’edificio si dimostrò talmente gommoso che nemmeno i registi (esogeni ed endogeni) delle stragi e del terrorismo riuscirono ad abbatterlo. Non è un caso che il defunto Giulio Andreotti fu “l’idealtipo” del politico italiano al tempo del semi protettorato.
Negli Ottanta qualcosa iniziò a cambiare. Bettino Craxi — uomo intelligente e spregiudicato — comprese per tempo la necessità di una svolta, di una rottura. Da qui l’ipotesi di un diverso ruolo internazionale e l’ambizione d’incidere autonomamente su un contesto ancora rigidamente bipolare ma ormai anti storico. Ecco allora la scelta per gli “euromissili” in Sicilia — un’opzione forte per l’Alleanza atlantica e una rottura traumatica con il PCI, il terminale finanziario e politico dei sovietici —, la missione in Libano, le navi nel Golfo Persico, il varo della portaerei Garibaldi, l’attivismo in Nord Africa e in Levante e, soprattutto, il caso Abu Abbas e i fucili di Sigonella. Momenti d’orgoglio nazionale e rivendicazione d’indipendenza intrecciati a pause, concessioni (il bombardamento di Tripoli a cui seguì il petardo di Lampedusa) e prudenti ritirate.
La terza fase della prima repubblica coincise con la caduta del muro — e l’esaurimento della nostra rendita di posizione — e si concluse, come sappiamo, con tangentopoli, gli scandali, i processi. E alcune morti, più o meno oscure. Mentre Craxi pagò con l’esilio le personali intemperanze e la voracità dei suoi sodali, la nostra industria a partecipazione statale, il motore di sviluppo tanto temuto dai nostri patners europei, venne smantellata. Nel silenzio assordante della politica e secondo gli auspici dei crocieristi del Britannia, l’Iri fu smembrata. Svaniva tra le mani di Prodi un colosso di dimensioni mondiali: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme, Banca commerciale, Banco di Roma, Credito Italiano.
Nel primo decennio del terzo millennio l’Italia si scoprì ormai marginale in un contesto internazionale sismico e disordinato. Berlusconi cercò di ritrovare un ruolo per sé e per il sistema-nazione attraverso una sua diplomazia personale, privata. Un disegno controverso, confuso e, alla fine, purtroppo perdente. A fronte d’innegabili successi come il rapporto con la Russia e un nuovo attivismo nel Levante e in Nord Africa  — dati poco graditi ai nostri alleati — il Cavaliere inanellò una serie di sconfitte in Europa e, con la fine dell’era Bush-Blair e il dilagare della crisi economica, si  ritrovò privo d’ogni appoggio oltre Manica e oltre Oceano. Da qui le possenti pressioni esterne per la “normalizzazione” dell’Italia, la ridicolizzazione internazionale del leader, la sciagurata guerra di Libia e il diktat di Bruxelles.  Il risultato fu Mario Monti, il terminale di Angela Merkel.
Un libro, una provocazione, un appello
Se il “governo degli ottimati” ha segnato la totale subalternità di Roma agli interessi stranieri e l’assoluta irrilevanza italiana (vedi il contenzioso italo-indiano) nel contesto internazionale il governo Letta non sembra dare segni di discontinuità. Nel suo fluviale discorso d’insediamento, il nuovo premier si è dimostrato reticente sui temi di politica estera: un retorico omaggio all’Unione Europea, qualche banalità sul Sud del mondo (una carezza al centro-sinistra) e un accenno (un contentino per il centro-destra…) al caso dei nostri fucilieri di marina. Punto e basta. La “grande politica” continua a non interessare ai nostri politici.
Un errore grave e pesante, poiché l’Italia odierna ha ancora diverse valide carte da giocare per riprendere il posto che le spetta in Europa e sulla scena mondiale. Lo ricordano, con ampia e meticolosa documentazione, le analisi di sei giovani studiosi — Francesco Tajani, Salvatore Santangelo, Emanuele Schibotto, Alessandro Demurtas, Luca Marini, Francesco Galietti, Stefano Torelli — nel loro interessante libro significativamente intitolato “Italia, potenza globale?” (Fuoco Edizioni, Roma. Euro, 13.00).
Punto di partenza del saggio è una semplice domanda: come recuperare dopo decenni d’incertezze rilevanza geopolitica e strategica? Per gli autori è una “missione possibile” a condizione che si riesca, in primis, a «sfruttare al meglio la leva offerta dal soft power, per il quale l’Italia gode di un vantaggio competitivo rispetto a paesi concorrenti. Secondo, risaldare il partneriato con gli Stati Uniti, a tutt’oggi ancora la prima economia mondiale e la sola superpotenza. Terzo, riprendere il (fallimentare) progetto francese dell’Unione del Mediterraneo, farlo proprio e riconfigurarlo in maniera efficace. Quarto, farsi portatore in seno all’UE delle istanze dei Paesi scontenti dalla leadership franco-tedesca, creando un’alleanza strategica. Quinto, spingere le relazioni con i Paesi-chiave, a livello geopolitico e geoeconomico, degli anni a venire: Turchia, Russia e Cina, ma anche Serbia, Arabia Saudita, Vietnam, Indonesia e Corea del Sud».
Su queste coordinate i sei ricercatori — tutti collaboratori del Centro Studi Geopolitica.info — hanno sviluppato un lavoro a tesi, spaziando dalla ridefinizione dell’interesse nazionale alla questione energetica (senz’altro il capitolo più convincente), dal nostro ruolo economico, politico e militare nel Mediterraneo e nei Balcani ai rapporti con le economie emergenti euroasiatiche. Il risultato è un affresco a tinte contrastate e valenze disuguali (e talvolta contrastanti) ma fruttuosamente “scorrette” e tutte importanti.
Qualche esempio. Con logica stringente e rigorosa, gli studiosi di geopolica.info analizzano, alla luce dell’interesse nazionale, i risultati delle nostre missioni militari: un ottimo lavoro dai risultati purtroppo mediocri. Come ci avvertono i redattori di “Italia potenza globale?”, la professionalità e lo sforzo delle Forze Armate — un’eccellenza italiana —  da decenni vengono sprecate sui vari fronti da governi incapaci di visioni strategiche del futuro. Del resto come ricordava l’ambasciatore Incisa di Camerana «al concetto di interesse nazionale è legato il concetto di potenza, concetto che odora di bruciato, ma più che mai valido ad ogni livello, più ancora del concetto di Stato nazionale, perché si estrinseca nella capacità di far valere nelle sedi multilaterali il proprio punto di vista e quindi interessi nazionali o generali». Ragionamenti impossibili per Prodi e Berlusconi, semplicemente improponibili per Monti. E ancora. Di grande interesse le ipotesi per una strategia energetica autonoma che tenga conto, nella fondamentale partita delle risorse, delle esigenze nazionali e dei rapporti di forza inter europei ed extra europei. Un mix di realismo e di sana utopia che non sarebbe dispiaciuto all’ingegner Mattei.
Ovviamente non su tutto concordiamo con gli autori: per esempio, ritroviamo tra le pagine un’inutile sopravalutazione di Monti e del non brillante Terzi (do you remember l’affare marò?), una fede — forse scossa ma ancora abbastanza convinta — sulle virtù taumaturgiche dell’Unione Europa e una speranza (?) di riallacciare con il “grande fratello” d’oltre Atlantico un rapporto preferenziale, semi esclusivo. Da “junior patner”.
Su quest’ultimo punto, anche sulla base delle intuizioni di Sergio Romano, Geminello Alvi, Virgilio Ilari, dissentiamo profondamente. Come l’esperienza Berlusconi ha dimostrato, non è più tempo per ipotesi “neo atlantiste” e tanto meno di nuove “alleanze diseguali”. Terminata la guerra fredda e fissati i nuovi paletti nel disordine planetario, gli USA non hanno alcun interesse reale a sostenere l’Italia — una realtà, per loro, spesso sfuggente e indecifrabile — contro il blocco franco-tedesco e la Gran Bretagna. Come ricordava il vecchio Hegel, gli Stati sono “mostri freddi” e i rapporti di forze, le logiche di potenza sono le uniche cose che contano. Inutile perciò indugiare in sogni che rischiano di trasformarsi in incubi.
È venuto il tempo, invece, per il patrio Stivale di abbandonare subalternità e inutili velleità e costruire una presenza nel mondo degna e programmare, finalmente, il nostro futuro. In modo razionale, serio e autonomo. È ora che la società politica (o ciò che ne rimane) prenda consapevolezza che, come scrive Mario Sechi nella sua bella introduzione al libro, è arrivato il momento d’abbandonare «l’incertezza: con Putin sull’energia, con gli americani quando c’è da combattere, con gli arabi quando c’è da mediare nel suk, ma quasi mai con l’Italia e gli italiani. C’è molto da fare». La Politica, la “grande Politica” è sempre decisione, scelta, progetto.

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