Né filosofo né politico. Così il mito Battisti colpisce pure i ragazzi

Due ragazze e un ragazzo, in treno, si strappavano ieri il walkman per sentire Lucio Battisti. “Un mito” diceva il ragazzo, “mi fa impazzire, è il mio preferito” diceva  la ragazza che non aveva vent’anni. Non erano cinquantenni travestiti o col lifting, ma ragazzi freschi, non ibernati.Un mito. Una voce venuta dal passato, dagli anni settanta e pure prima diventa un mito per i ragazzi del 2008.

Al decennale della sua morte, pochi giorni fa, centinaia di serate in tutta Italia lo hanno ricordato e non erano gremite solo di miei coetanei ma di loro. Per disguido mi sono trovato in agosto in locali frequentati da ragazzi e con meraviglia ho sentito ancora Battisti e i cori di ragazzi accompagnarlo. È uno dei rari fili di continuità tra le generazioni, un esile segno che qualche eco del passato è rimasta viva. Come i Beatles eBob Marley. Ma Battisti, avrei voluto dire a quei ragazzi, non è morto dieci anni fa ma trenta. Si smaterializzò nel ’78, lasciando un’eco dolcissima di canzoni indimenticate. L’ultimo Battisti era un uomo ingrassato e taciturno, con una specie di Alzheimer volontario. Difatti quando era ancora in vita nacquero già i suoi imitatori, e scoppiarono già liti per l’eredità musicale.

Avrei voluto dire a quei ragazzi che anche per noi suoi contemporanei Lucio fu un mito e anche un pezzo della nostra autobiografia collettiva. La sua voce, la sua musica, i testi delle sue canzoni, scritte con Mogol, non sono figli del ‘68 né della colonizzazione musicale americana, ma furono frutto genuino di un cantautore italiano, di un singolo che esprime la sua irrepetibile singolarità. Dei miti non interessa la storia, ma la mitologia. Non so chi fosse veramente Lucio, ma so come lo ascoltammo noi ragazzi non allineati degli anni settanta. In un mondo che non ci vuole più era l’incipit di una sua canzone ma anche della nostra vita dissidente. Il mio canto libero è stata la colonna sonora di una vita e di una scelta professionale. E l’immensità si apre intorno a noi, s’innalzano purissime… alludeva per noi a scelte eroiche, come le discese ardite e poi le risalite… E poi, la destra dei fantasmi del passato cadendo lascia il quadro immacolato, a noi parve una straordinaria allegoria della militanza ideale nel nobile regno dei vinti, cari al cielo e maledetti dalla storia. Come l’imbarazzante planando sopra boschi di braccia tese, o il più classico volando intorno alla Tradizione, dove qualcuno sentiva odore di Evola e Guènon. E poi ancora in alto e con grande salto e laggiù il deserto, ci pareva d’ascoltare Zarathustra. Come può uno scoglio arginare il mare, richiamava a noi i mari nebbiosi di Caspar David Firedrich.

Mi ritorni in mente evocava nei fondamentalisti liceali la reminiscenza platonica. Illusioni ottiche e acustiche, infondate associazioni, ma così nacque il mito. Nell’epoca dell’invadenza del politico e della vita collettiva, ci attaccammo a quel lieve evocare le emozioni e i mondi interiori; ci attaccammo a quelle storie d’amore, a Linda, Francesca, per cantare le nostre e riabilitare l’universo a due in piena orgia collettiva.Battisti fu per noi qualcosa di più di un cantante. Fu il ponte tra la trasgressione e la tradizione, fra la leggerezza dei diciott’anni e l’intensità di alcune passioni adulte. Ci riconciliò con la modernità senza farci perdere l’amore dell’antico, ci riportò al presente senza allontanarci dal mito, anzi accompagnandoci col mito nei ritmi, nelle parole e nel vestire di quegli anni; dimostrandoci che era possibile essere romantici nell’epoca cinica della tecnica o nell’era ideologica della lotta armata. Ci aiutò a riannodare il rapporto con il nostro tempo, pur non amandolo, e con le nostre coetanee. Battisti accompagnò i primi balli appassionati, tu chiamale se vuoi erezioni… Lasciamo quel mito a i ricordi imprecisati di un’età dell’oro che fu la nostra adolescenza o giovinezza, quella voce magica che ci stregò e continua a stregare dopo più di trent’anni. Ma Battisti fu davvero “di destra”? La questione è irrilevante, perché non riguarda lui ma i suoi fruitori. Battisti era amato e seguito in modo speciale da una generazione controcorrente che tramite lui collegava il romanticismo grande, pubblico e politico, al romanticismo piccolo, privato, intimo e amoroso. Ma erano sentimenti che appartenevano a noi, non importa che appartenessero pure a lui. Da un cantante non bisogna aspettarsi lezioni filosofiche o ideologiche, ma belle canzoni ed emozioni. Da portarsi nella tasca interna del nostro sentire e non perché le abbia instillate lui, ma giacevano nei fondali della nostra anima. Lui le ha solo risvegliate, modulate, musicate.

La poesia è nei diciott’anni che ascoltarono quelle canzoni, negli amori che fiorirono all’ombra di quella voce; come nei vostri diciott’anni, nei vostri amori. Battisti è stato un ostetrico di quelle emozioni, le ha tirate fuori da noi, da voi, ma erano nostre, sono vostre. Non attribuitele a lui, non c’è da vergognarsi di avere quelle emozioni, quei sentimenti. Questo mi sarebbe piaciuto dire a quei ragazzi che si strappavano le cuffie per sentire brani di Lucio Battisti. Rispetto ad altri miti oggi superstiti di quegli anni, come Che Guevara, di Battisti resta perlomeno non un’icona in maglietta o poster, ma un centinaio di minuti in delizie musicali. Ma forse le parole avrebbero invecchiato il mito, lo avrebbero imbolsito. Meglio lasciar stare. Ho tirato fuori anch’io il walkman e mi sono messo a navigare tra battisti, mine, battiati e altri reperti. La musica ci salverà.

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