E’
veramente bizzarro un “sistema democratico” che teme i voti di
preferenza, mette sbarramenti alla libera espressione politica, “premia”
i partiti principali, che non hanno però la maggioranza assoluta del
consenso elettorale.
E’ la cronaca di questi giorni, abilmente nascosta sotto l’immancabile patina della “governabilità”, malgrado, ad ogni occasione, si
chieda più rappresentanza della volontà popolare, più partecipazione al
voto, più impegno nel sanare la cesura tra Paese reale e Paese legale.
Sul piano “destruens”, la letteratura è ampia. Ancorché datate, certe
analisi “d’annata” continuano a conservare la loro forza. Difficile –
da questo punto di vista – non vedere spicchi di verità in chi
ha colto nel “sistema” democratico, quale ci è stato consegnato dalle
rivoluzioni borghesi, il regno dell’individualismo e dell’astrattismo
(Joseph De Maistre); la fabbrica dell’incompetenza (René Guénon); il
luogo deputato della partitocrazia (Robert Michels); il dominio
dell’oligarchia capitalistica sulla realtà politica (Julius Evola); la
capacità di agire sull’ingenuità delle masse attraverso l’aiuto della
stampa influente e di “una infinità di astuzie” (Georges Sorel).
E’
anche partendo dalla consapevolezza sui limiti, politici e culturali,
del “sistema” che si può iniziare a cercare nuove forme di
rappresentanza-partecipazione popolare alla vita nazionale.
Al
di là delle dispute filosofiche, delle giuste critiche al “sistema dei
partiti”, della deriva antipolitica, questo rimane il vero problema.
Problema che pochi sembrano, oggi, volere affrontare direttamente,
mimetizzandosi alcuni dietro un piccolo riformismo istituzionale (via il
Senato e le Province, più per problemi di bilancio…), altri
in una difesa formalistica dell’esistente, altri ancora guardando alla
legge elettorale come alla madre di tutti i cambiamenti.
Nel
frattempo il “popolo”, nel cui nome i sistemi politici occidentali
dicono di operare, è “altrove”, lontano; non partecipa e non si sente
rappresentato; non vive la politica, la subisce.
Nella misura in cui il
senso più vero della crisi del sistema partitico-parlamentare sta nel
“suicidio” culturale dei popoli d’Europa e nella loro “uscita dalla
Storia” , è ad una democrazia vista come “partecipazione di un popolo al
proprio destino” (Moeller van den Bruck), attivata e
controllata da un’ampia e complessa trama di gruppi intermedi, di
associazioni, di categorie produttive, di funzioni differenziate, di
comunità, che si deve guardare e a cui si deve lavorare.
Attivando
rotture con il passato, ridefinendo limiti, creando ex novo, ma anche
recuperando all’attualità, alla riflessione e all’azione sociale quella
critica certo non antidemocratica, ma neppure fideisticamente e formalisticamente democratica, in grado di sollecitare, su nuove basi, un rapporto originale con le tematiche della rappresentanza, del consenso e del controllo popolare.
Il
resto è puro chiacchiericcio, buono per animare un dibattito politico
sempre più asfittico e lontano dai reali interessi della gente. Anche
quelli di vedere finalmente rappresentata la propria volontà.
di
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