Un libro può diventare una trappola.
Un mare procelloso e fascinoso. Se indugi un attimo in più del dovuto
sulla battigia, vedi spiaggiarsi sulla scogliera della memoria manciate
di ossi di seppia, ondate di “triste meraviglia, cocci aguzzi di
bottiglie”. Resti di un naufragio.
Un libro può assomigliare ad un oceano profondo e impietoso.
Le onde riportano, a volta, spezzoni di vita vissuta che — come Guccini
insegna — ti avvolgono come miele: la nostalgia è un sentimento ambiguo
e pericoloso. Da evitare. Non sempre, però, riesci a sottrarti alla
malia delle maree, al loro richiamo e, allora, ti attardi sul litorale
dei ricordi, dove ritrovi resti di bandiere stracciate, polene marcite,
vele strappate, pennoni spezzati. Malinconia mista a tenerezza e un po’
d’incazzatura.
Un libro — centinaia di fogli, migliaia di righe, decine di capitoli — talvolta non ti risparmia nulla.
Soprattutto se chi scrive ti ricorda l’affondamento del grande battello
tricolore, un vascello un po’ vecchio e scassato, ma abbastanza
dignitoso. All’improvviso dal gorgo riaffiorano carte, date, nomi.
Volti. In lontananza scorgi nocchieri, nostromi, capitani, ammiragli che
abbandonano il povero relitto incagliato sulla scogliera. I mozzi, no.
Loro sono affogati mentre i marinai annaspano tra le onde, ma non
importa. È il destino della “bassa forza”, quelli che faticano e
sgobbano. Le scialuppe — poche, come quelle del Titanic — sono piene di
gallonati comandanti, incapaci e impomatati come uno Schettino
qualsiasi. Un tempo, affollavano la plancia e applaudivano il
grand’ammiraglio — l’infallibile che ha fallito —; oggi tutti, compreso
il navarca supremo, asciugano i loro panni sulla spiaggia e fissano
l’orizzonte con occhi liquidi. Disorientati. E disoccupati.
Un libro così ti obbliga a riflettere.
Intanto sulle sabbie umide si accumulano bottiglie senza messaggi.
Contenitori vuoti. Nemmeno i fratelli Grant saprebbero ritrovare
“l’isola misteriosa” di verniana memoria. Onda dopo onda, il mare
cancella le tracce sulla sabbia e tutto rischia, nel tempo dell’effimero
e del provvisorio, di sparire. Eppure c’è ancora — riprendendo Montale —
“un filo da disbrogliare che finalmente ci metta/ nel mezzo di una
verità”. E allora usciamo dalla poesia e dalle metafore.
Punto di partenza, il naufragio della destra politica italiana:
un dato devastante e incontestabile. Un disastro senza onore e senza
gloria. Inutile e noioso ripercorrere le tappe, stucchevole e ipocrita
far finta di cercare i colpevoli. Tutto è noto, tutto è chiaro. Tutto è
scritto. Nessuno è innocente, nessuno è senza colpa. Chiunque abbia
avuto responsabilità è corresponsabile. Ma — domanda centrale — un’altra
narrazione, un’altra storia e, soprattutto, un altro finale erano
possibili?
Su questo nodo irrisolto, questo interrogativo sospeso si sviluppa il lavoro di Alessandro Amorese dedicato al Fronte della Gioventù.
Un libro importante che ricostruisce — con organicità e onestà
intellettuale — un’esperienza complessa, scomoda, contradditoria ma
anche terribilmente generosa, che coinvolse negli anni decine di
migliaia di ragazzi italiani. Con stile asciutto e scansando ogni
trimpellio retorico, l’autore ha riunito con minuzia le tessere disperse
di quel mosaico frantumato che un tempo componeva “la destra che
sognava la rivoluzione”, cercando di riannodare percorsi interrotti e/o
rimossi, dando voce ai protagonisti più o meno noti ma soprattutto, come
Bloch e Le Goff insegnano, “interrogando i documenti”, esplorando archivi, ritrovando materiali, indagando in modo critico i contesti.
Su
queste coordinate il ricercatore toscano ha costruito un lavoro ben più
solido dai precedenti tentativi — pensiamo, ad esempio, al libro di
Marco di Troia, interessante ma incompleto, e all’imbarazzante opuscolo
apologetico di Tatarella Fabrizio… — e ha focalizzato la sua attenzione
sul periodo più fecondo e meno conosciuto del Fronte della Gioventù,
ovvero al ciclo 1982-1995. Una scelta temporale a nostro avviso
corretta. Forse a caso o forse no, la narrazione s’incastona e diparte
dalle ultime pagine de “La rivoluzione impossibile – dai campi Hobbit alla Nuova destra”,
il fondamentale libro di Marco Tarchi dedicato all’esperienza del FdG
(e non solo) tra il 1977 e il 1980. Mentre il pensatore fiorentino
ritenne dopo ’80 conclusa la possibilità “d’aiutare la destra a pensare”
e decise di intraprendere nuovi percorsi, nei primi anni Ottanta prese
forma un’altra vicenda. Ed è la storia narrata da Amorese.
Tutto iniziò (o ricominciò) nel 1982. Dopo
la fuoriuscita di Tarchi e dei suoi amici, Gianfranco Fini, convinto
d’avere nuovamente in mano lo strumento, accettò la convocazione di
un’assemblea nazionale e l’indizione di assemblee provinciali che (per
la prima volta) potevano eleggere il segretario. Un calcolo sbagliato,
poiché contro ogni previsione l’opposizione interna si rianimò e strappò
agli almirantiani oltre la metà dei delegati insidiando pesantemente la
segreteria uscente. Alla plumbea assemblea di Milano,
Gianfranco riuscì a farsi rieleggere solo grazie ad un accordo in
extremis con la pattuglia romualdiana, uno dei tanti inutili giochetti
interni. In ogni caso, all’indomani della riconferma del segretario
nazionale, si affacciò sulla scena un nuovo personale politico
(Andriani, Pasetto, Raisi, Marzio Tremaglia, Valle, Zanon, Granata,
Perina, Sangiuliano, Frassinetti, Buttafuoco e altri amici) e per il FdG
iniziò una fase di rilancio, d’entusiasmo. Al centro come in periferia.
Si trattò di un fenomeno inatteso che stupì avversari e osservatori
esterni e spiazzò il notabilato missino — tutto intento a festeggiare il
centenario mussoliniano e curare le candidature parlamentari — ed
invero poco entusiasta di un “revival” del mondo giovanile, considerato
da sempre un’“eterna fonte di guai”.
L’autore intelligentemente analizza quest’accelerazione imprevista proponendo una lettura del clima culturale e politico del tempo e ne fissa le ragioni nell’intrecciarsi di fattori diversi — la crisi dell’Unione Sovietica (i fatti polacchi, l’Afghanistan, la guerra cino-vietnamita), il reaganismo, il nuovo pontefice e (perché no?) i fenomeni televisivi e le nuove mode giovanili — la cui somma determinò uno scenario post-ideologico penalizzante per la sinistra e, al tempo stesso, favorevole alla destra giovanile. Un approccio corretto: tra “Happy Days” e “Il Cacciatore”, il neoedonismo reganiano e l’eclisse del gramscismo, prese forma il nuovo inizio del FdG. Non era la marcia su Roma o il palazzo d’Inverno ma non sempre si può scegliere e, in ogni caso, tanto ci bastò.
Come ricorda Amorese in quegli anni, più o meno confusamente, ovunque avvertimmo una nuova sintonia con la galassia giovanile e, consci dell’obsolescenza dei messaggi di ieri, tentammo di tracciare categorie innovative, immaginando percorsi differenti. Penso alle battaglie del FdG per l’indipendenza nazionale, le denunce — in anticipo su Cossiga e Priore — delle responsabilità straniere nelle stragi italiane, a Fare Fronte e il protagonismo studentesco, alle prime riflessioni sul pluralismo e la democrazia. Ricordo le iniziative per il “superamento” degli anni di piombo (i convegni di Roma e Milano, ma non solo), il primo filo di dialogo con settori cattolici (CL) e spezzoni di sinistra (i radicali, i socialisti autonomisti), il coraggioso impegno del Fronte siciliano contro la mafia, l’ipotesi di un movimento giovanile europeo, l’adesione ai referendum craxiani e le battaglie (da me, ieri come oggi, non condivise…) contro il nucleare. Ma non solo. Il FdG fu anche uno sguardo inedito verso la rivoluzione tecnologica (il saggio di Gasparri e Urso su “L’Età dell’intelligenza”, il convegno su “Il muro del tempo” a Milano), la riscoperta del Futurismo grazie a Pietrangelo Buttafuoco e la critica all’americanismo, culminata nella festa nazionale di Siracusa. Insomma, intelligenze disordinate, dibattiti furibondi, letture confuse, tanta curiosità e buone energie: un “mutamento antropologico” e un netto salto di qualità (disomogeneo ma concreto) rispetto al primitivismo politico missino e al cupo settarismo extraparlamentare.
Raccontare
la storia del FdG senza però evidenziarne le criticità e le mancanze è
inutile. L’autore lo sa bene e, fortunatamente, non indulge in
manierismi rassicuranti. Con lucidità il ricercatore individua nel
correntismo il punto di crisi principale. Concordiamo con lui: il frazionismo è una vecchia malattia dell’ambiente
ma nella prima fase (1982-87) riuscimmo a sopirlo e innescare un
circolo virtuoso tra le diverse sensibilità. Dal 1988, il fenomeno,
esasperatosi dopo il congresso di Sorrento, diventò devastante:
nell’indifferenza dei leader del MSI, il Fronte si balcanizzò, amicizie e
collaborazioni trasversali s’interruppero e ogni dibattito si trasformò
in una assurda polemica. Nonostante qualche iniziativa interessante
(come le feste di Assisi, Spoleto e Siracusa e le mobilitazioni contro
la droga), ci rinchiudemmo — quasi senza accorgercene — in una bolla di
autoreferenzialità, slegata ed avulsa dalla società italiana. Smarrimmo così la capacità di leggere e interpretare il nuovo, la contemporaneità
— requisito fondamentale per un movimento politico alternativo — e i
messaggi si fecero sempre più deboli se non talvolta incomprensibili.
Come annota Michele Facci parlando di Bologna (ma la riflessione è
generale) “certe idee e certi atteggiamenti volutamente provocatori,
altro non facevano che isolarci e a renderci incomunicanti”. Le
responsabilità ancora una volta sono di tutti, nessuno escluso.
Va
aggiunto anche un altro dato, consequenziale al primo, un problema che
Amorese sfiora in più punti: l’esasperazione del c.d “comunitarismo”.
Senza scomodare i maestri di sociologia è noto che i gruppi chiusi sono
limitanti ed incapaci di aggregazioni vaste; non a caso le realtà
cintate diventano inevitabilmente il triste rifugio di elementi
caratterialmente deboli o problematici e la fucina di settarismi
imbarrazzanti. Fu questa la sorte, dopo il 1988 di diverse situazioni
locali (con l’eccezione, va riconosciuto, del laboratorio di Colle Oppio).
Con alcune differenze sostanziali. L’ala “finiana” — salvo le solite
eccezioni, Padova ad esempio — fu travolta da una deriva iper
identitaria che la inchiodò in un lungo ripiegamento culturale mentre
una parte, purtroppo consistente, della componente “rautiana” rivelò una
subalternità psicologica (e, spesso, estetica…) alla sinistra, una
vocazione pauperista e un’insana passione per il “pensiero debole”. In
ogni caso, il richiamo ad una cultura di Partito svanì dai nostri
orizzonti e il mesto epilogo dell’incolore segreteria Rauti frantumò
qualsiasi ipotesi di ricomposizione.
Accanto a queste
valutazioni, l’autore più volte sottolinea e documenta — sono pagine
che le tante prefiche della Fiamma che ci affligono tutt’oggi dovrebbero
leggere e meditare… — l’atteggiamento guardingo del gruppo dirigente del MSI verso i quadri giovanili.
Volutamente il FdG fu lasciato dalla Segreteria in una sorta di limbo
giuridico e i fondi erogati furono sempre terribilmente limitati. Negli
anni, mentre si finanziavano generosamente i Comitati Tricolori
dell’intero globo terracqueo — i risultati sono noti…—, Almirante, Fini e
Rauti centellinarono ogni contributo, ogni appoggio. Non deve quindi
sorprendere la mancata immissione di quadri negli organi elettivi e non
valorizzazione del gruppo dirigente giovanile. Ad Almerigo Grilz, il migliore tra noi, il partito offrì la rappresentanza dei volumoni della Dino editori…
Fortunatamente,
Amorese non si limita alla rivisitazione dei momenti attivistici e alle
problematiche interne, ma restituisce vivacità e luce anche a tante
storie apparentemente minori che dalla Sicilia al Piemonte hanno segnato
una generazione di ragazzi entusiasti e allegri. Bene. Vi è però un
punto che meno ci convince ed è
il capitolo dedicato all’editoria. La scolastica romana — imperniata
sulla “formazione spirituale del militante” e mutuata
dall’extraparlamentarismo —, non riassume ne rappresenta il forte
fermento che attraversò il FdG nazionale. Non molti tra noi prestarono
attenzione ai “codreanisti integrali” capitolini e alle loro dogmatiche
letture di Degrelle e del tercerismo. In tutt’Italia, con diverse
sensibilità e profondità, il dibattito — come si può ricavare all’ottimo
libro di Bozzi Sentieri “Dal neofascismo alla nuova destra, le riviste”, edizioni Nuove Idee — si inanellò su due coordinate principali.
In primo piano vi fu l’influenza della Nuova Destra e della Nouvelle
Droite francese. Nonostante le distanze sempre più marcate di Tarchi dal
mondo giovanile, il lavorio degli anni Settanta aveva penetrato
profondamente l’ambiente; sempre più distanti dall’evolismo, proseguimmo
ad approfondire e riprendere categorie e schemi della ND calandoli, con
grande sconforto (almeno apparente) di Marco, nell’impegno politico.
In quegli anni,
oltre ai testi citati di De Benoist, Locchi e Veneziani etc, le letture
si ampliarono notevolmente. Quindi Junger, Schmitt, Weber, Sombart,
Heidegger, Faye, Cardini, Freund e Miglio e la riscoperta dell’avventura
con Langendorff, T.E Lawrence, Saint Euxpéry e, ovviamente, i fumetti
di Hugo Pratt. Nel frattempo scoprimmo grazie a Beppe Niccolai il Fascismo di Berto Ricci.
La lettura del fiorentino ci riconciliò con l’esperienza del Ventennio —
ridotta dal neofascismo a “legge e ordine” — e ci diede spunti per
studiare con occhi nuovi De Felice e la sua opera e aprire un rapporto
fruttuoso con Giano Accame sul pensiero economico di Pound e sul
“socialismo tricolore”.
Torniamo all’oggi. Come sopra accennato “Fronte della Gioventù”
non è un mero “amarcord” o un racconto consolatorio e nostalgico. È un
libro importante che pone domande importanti. Sul passato prossimo e
anche e soprattutto sul presente e sul futuro. Al netto delle nostre
ingenuità e di tutti gli errori commessi, la piccola grande storia del
FdG indagata da Alessandro Amorese dimostra che a destra, nonostante lo
scetticismo di Tarchi, era possibile riflettere, pensare e, soprattutto,
costruire buona politica.
Da Milano a Roma
e Siracusa, da Padova a Bologna e Cagliari, in modi e forme diverse
intuimmo i tempi nuovi e rifiutammo il piccolo cabotaggio nostalgico,
inoltrandoci spensieratamente verso il mare aperto. Purtroppo le nostre
scialuppe erano troppo piccole e fummo ributtati a riva. Fallimmo,
certo. Per presunzione, per stanchezza. Poco importa. Ma la rotta era quella giusta.
Speriamo che
qualcuno, leggendo questo libro, trovi un sestante, aggiorni le
coordinate e, con spalle forti e schiena dritta, intraprenda un nuovo
viaggio. Abbandonando gli inzuppati navarchi sulla spiaggia dell’oblio.
di Marco Valle, Destra.it
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