All’alba della repubblica italiana non poté nascere una destra, o centrodestra che dir si voglia, perché a farsene carico ci fu il Msi, un movimento impropriamente “di destra”, innestato nel tronco sociale e proletario dei vinti dove gli stessi padri del conservatorismo – ovvero Leo Longanesi, Giovannino Guareschi e Indro Montanelli – si ritenevano distanti se non avversari. Non senza rammarico.
A cominciare da me, tutti a casa. Questo dovrebbe dire Silvio Berlusconi se veramente vuole dare un futuro a ciò che fu la sua stagione politica. Il fallimento di un’intera classe dirigente poi – o l’impossibilità di individuarne una a destra, come ha spiegato ieri Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera – è purtroppo svelato nella bella mela bacata che fu l’avventura di Forza Italia, “una sigla per la raccolta di voti e uno strumento d’influenza, neppure di governo come s’è visto…”.
Quando era forte e potente Berlusconi non riuscì a fare una classe dirigente al suo partito – la storia è piena di “bracci destri” del Cav. finiti male – e non può riuscire adesso che la corte dei fedeli s’è ristretta ai fedelissimi pronti a tradirlo per spartirsi le spoglie del cosiddetto patrimonio liberale e moderato svenduto al prezzo di un pascolo abusivo a Matteo Renzi e al Partito della Nazione.
Delenda est Carthago. Chiunque arrivi al posto di Berlusconi – sia esso Stefano Parisi o un altro – deve passarci il sale sulle rovine di Forza Italia. Nessuna faccia, infatti – da Renato Brunetta a Maria Stella Gelmini, da Gianfranco Micciché a Renata Polverini – può pensare di rosicchiare spazio e ruolo nel centrodestra che verrà.
A destra – o centrodestra che dir si voglia – non c’è nulla di ciò che è stato che può tornare buono per domani. Non certamente con la paura e con la rabbia della demagogia, due ingredienti forse perfetti per incendiare di consensi una destra che non va al governo e che quando ci va fallisce.
Come Cicerone per restituire Roma sulla scena del Mediterraneo disse di Cartagine “deve essere distrutta”, così Stefano Parisi – o un altro – non potrà fare affidamento sulle rovine del berlusconismo perché i fallimenti vanno ben oltre l’impossibilità di trovare oggi un erede credibile dentro casa.
Dovunque quella stagione era maggioranza, oggi è un deserto. Come a Napoli, così in Sicilia dove le prove generali del Partito della Nazione si sono avute, per esempio a Ragusa, in un voltafaccia raccontato a suo tempo nella trasmissione di Milena Gabanelli: la sede di Forza Italia, nel giro di una notte, diventa sede del Pd di Matteo Renzi.
Sale, dunque. Solo sale. A eccezione della Liguria di Giovanni Toti, della città di Ascoli Piceno con Guido Castelli o del Veneto di Luca Zaia (che però va di suo e non deve certo dire grazie a Dudù o a chissà chi ad Arcore), ovunque nel Sud – dove la vittoria elettorale di Berlusconi era salutata come una finale di campionato – non c’è che un vuoto spettrale spezzato da singoli giochi di fuoco, come l’indiscusso successo di Mara Carfagna nelle recenti elezioni ma la catastrofe della destra a Roma continua a seminare i prodromi di un ulteriore fallimento per cui sale, soltanto il sale Parisi, o un altro, dovrà gettare. Giusto per non farsi contaminare dalla iattura di una stagione giocata sulla pelle di milioni d’italiani che in quell’unico contenuto politico declamato dalla rivoluzione liberale – il programma del fare – non hanno mai visto realizzato un fico secco.
All’alba della repubblica italiana non poté nascere una destra, o centrodestra che dir si voglia, perché a farsene carico ci fu il Msi, un movimento impropriamente “di destra”, innestato nel tronco sociale e proletario dei vinti dove gli stessi padri del conservatorismo – ovvero Leo Longanesi, Giovannino Guareschi e Indro Montanelli – si ritenevano distanti se non avversari. Non senza rammarico. Il povero Guareschi affidò il proprio intendimento a una vignetta. Eccola: Guareschi torna dal campo di concentramento, si aggira tra le rovine, incontra un passante e chiede “Il mondo dove va?”. La risposta: “A sinistra”. La replica: “Bene, allora io vado a destra”.
A Leo Longanesi gli chiedevano tutti di costruire la “grande destra” e lui li liquidava dicendo: “E io dovrei fare la Grande destra con le mezzecalzette?”.
Di Indro Montanelli, si sa: quando la destra sembrò avere avuto ragione su tutto, proprio con Berlusconi, lui scelse il torto.
Nel giorno dopo della catastrofe berlusconiana non può più darsi la destra, o centrodestra che sia, perché i valori, nel frattempo appaltati al facile marketing dei talk – non senza i miasmi razzisti e beceri – non corrispondono più a un progetto di costruzione della città politica ma alla pesca delle occasioni con cui i “dirigenti” cercano di ritagliarsi un vitalizio.
Stefano Parisi, o un altro, ancora prima di costruire il suo partito, dovrà dunque fare tabula rasa di ciò che si trova a ereditare e poi distinguersi il più possibile dal gallo che becca nel suo stesso pollaio. Non certo Toti, ma Matteo Renzi, quello che fa credere alla destra di non essere di sinistra.
Quando era forte e potente Berlusconi non riuscì a fare una classe dirigente al suo partito – la storia è piena di “bracci destri” del Cav. finiti male – e non può riuscire adesso che la corte dei fedeli s’è ristretta ai fedelissimi pronti a tradirlo per spartirsi le spoglie del cosiddetto patrimonio liberale e moderato svenduto al prezzo di un pascolo abusivo a Matteo Renzi e al Partito della Nazione.
Delenda est Carthago. Chiunque arrivi al posto di Berlusconi – sia esso Stefano Parisi o un altro – deve passarci il sale sulle rovine di Forza Italia. Nessuna faccia, infatti – da Renato Brunetta a Maria Stella Gelmini, da Gianfranco Micciché a Renata Polverini – può pensare di rosicchiare spazio e ruolo nel centrodestra che verrà.
A destra – o centrodestra che dir si voglia – non c’è nulla di ciò che è stato che può tornare buono per domani. Non certamente con la paura e con la rabbia della demagogia, due ingredienti forse perfetti per incendiare di consensi una destra che non va al governo e che quando ci va fallisce.
Come Cicerone per restituire Roma sulla scena del Mediterraneo disse di Cartagine “deve essere distrutta”, così Stefano Parisi – o un altro – non potrà fare affidamento sulle rovine del berlusconismo perché i fallimenti vanno ben oltre l’impossibilità di trovare oggi un erede credibile dentro casa.
Dovunque quella stagione era maggioranza, oggi è un deserto. Come a Napoli, così in Sicilia dove le prove generali del Partito della Nazione si sono avute, per esempio a Ragusa, in un voltafaccia raccontato a suo tempo nella trasmissione di Milena Gabanelli: la sede di Forza Italia, nel giro di una notte, diventa sede del Pd di Matteo Renzi.
Sale, dunque. Solo sale. A eccezione della Liguria di Giovanni Toti, della città di Ascoli Piceno con Guido Castelli o del Veneto di Luca Zaia (che però va di suo e non deve certo dire grazie a Dudù o a chissà chi ad Arcore), ovunque nel Sud – dove la vittoria elettorale di Berlusconi era salutata come una finale di campionato – non c’è che un vuoto spettrale spezzato da singoli giochi di fuoco, come l’indiscusso successo di Mara Carfagna nelle recenti elezioni ma la catastrofe della destra a Roma continua a seminare i prodromi di un ulteriore fallimento per cui sale, soltanto il sale Parisi, o un altro, dovrà gettare. Giusto per non farsi contaminare dalla iattura di una stagione giocata sulla pelle di milioni d’italiani che in quell’unico contenuto politico declamato dalla rivoluzione liberale – il programma del fare – non hanno mai visto realizzato un fico secco.
All’alba della repubblica italiana non poté nascere una destra, o centrodestra che dir si voglia, perché a farsene carico ci fu il Msi, un movimento impropriamente “di destra”, innestato nel tronco sociale e proletario dei vinti dove gli stessi padri del conservatorismo – ovvero Leo Longanesi, Giovannino Guareschi e Indro Montanelli – si ritenevano distanti se non avversari. Non senza rammarico. Il povero Guareschi affidò il proprio intendimento a una vignetta. Eccola: Guareschi torna dal campo di concentramento, si aggira tra le rovine, incontra un passante e chiede “Il mondo dove va?”. La risposta: “A sinistra”. La replica: “Bene, allora io vado a destra”.
A Leo Longanesi gli chiedevano tutti di costruire la “grande destra” e lui li liquidava dicendo: “E io dovrei fare la Grande destra con le mezzecalzette?”.
Di Indro Montanelli, si sa: quando la destra sembrò avere avuto ragione su tutto, proprio con Berlusconi, lui scelse il torto.
Nel giorno dopo della catastrofe berlusconiana non può più darsi la destra, o centrodestra che sia, perché i valori, nel frattempo appaltati al facile marketing dei talk – non senza i miasmi razzisti e beceri – non corrispondono più a un progetto di costruzione della città politica ma alla pesca delle occasioni con cui i “dirigenti” cercano di ritagliarsi un vitalizio.
Stefano Parisi, o un altro, ancora prima di costruire il suo partito, dovrà dunque fare tabula rasa di ciò che si trova a ereditare e poi distinguersi il più possibile dal gallo che becca nel suo stesso pollaio. Non certo Toti, ma Matteo Renzi, quello che fa credere alla destra di non essere di sinistra.
di Pietrangelo Buttafuoco, da Il Fatto quotidiano
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