Pax mediterranea


I fallaciani - come Sallusti - ritengono che ciò che sta accadendo in Nord Africa e in buona parte del mondo arabo sia la realizzazione della profezia di Oriana, secondo la quale a un certo punto dal sud del Mediterraneo sarebbe venuta la fine del mondo e immigrazione e islamizzazione avrebbero cancellato l’Europa.

Tutti gli altri - anche gli americani - sostengono che invece ciò che sta accadendo è che gli arabi si stanno inventando la propria via verso la democrazia, con gli stessi strumenti che hanno usato tutti i popoli che ci sono già arrivati, cioè tramite rivoluzioni e guerre civili.

A ben vedere - con l’eccezione della Libia - la transizione potrebbe essere, se si realizza, ben meno cruenta di quella che abbiamo conosciuto in Occidente. Perché ora e perché in questo modo?
Atlantisti e neocon vecchia maniera sono scettici, ovviamente, dopo il fallimento registrato sempre e comunque in ogni tentativo di “esportazione” della democrazia. Il problema - rispondono i critici - è che l’esportazione ha sempre comportato un’invasione preceduta da massacri indiscriminati e bombardamenti a tappeto. I popoli della terra - anche quelli che riteniamo più sempliciotti e arretrati - non gradiscono le imposizioni da parte di eserciti stranieri, né accettano che qualcuno gli faccia la lezione e gli imponga un proprio modello “superiore”.

Così all’esportazione della democrazia si è sempre risposto con la resistenza popolare.
A nulla sono valsi anche i tentativi di provocare e finanziare cambiamenti radicali, modello particolarmente seguito all’inizio del Duemila con le “rivoluzioni arancioni” organizzate, fin nella grafica dei manifestini, negli Usa e realizzate dove si presentava l’occasione, dal Libano all’Ucraina. Anche in quei casi, il padrinaggio esterno troppo evidente è finito per allontanare il sostegno popolare da quei movimenti. Nessuno vuole passare per “agente degli americani”. Persino i portavoce dell’Onda Verde iraniana si sono dovuti misurare con il problema di un sostegno troppo evidente della loro rivolta da parte degli Usa, e hanno dovuto rassicurare i propri supporter che il proprio movimento era assolutamente autoctono e non aveva padrini occidentali. Mezzo secolo d’interventismo maldestro ha lasciato tracce profonde. Il novanta per cento della popolazione mondiale è convinto che l’imperialismo americano esista e che non sia animato da altruismo disinteressato.

Nel pieno della crisi libica, che si è trasformata in guerra civile, in tutti i circoli diplomatici del mondo si sente lo stesso commento: «Speriamo che almeno questa volta gli americani non si mettano in mezzo…». Il ruolo dell’Europa è invece, com’è ovvio, auspicato e fondamentale. Prevedere con certezza cosa accadrà nei prossimi mesi è velleitario. Le rivolte hanno tratti comuni, ma non avranno necessariamente esiti analoghi. Si dibatte se siano rivolte islamiche o rivolte per il pane. Un dubbio che denota la scarsa conoscenza dei Paesi islamici, dove l’Islam - come recita un adagio - «è la risposta a tutto».

Ricette politiche laiche, nel secolo che è trascorso, si sono dimostrate - secondo l’opinione della stragrande maggioranza degli arabi - inadatte a dare risposte ai bisogni materiali e morali. L’Islam può, ma sul come e in che misura le posizioni divergono.
Non è questo il luogo per fare la storia politica di un secolo nel mondo arabo e islamico, limitiamoci a sottolineare quali siano oggi gli elementi da cui non si può prescindere.
Nei Paesi arabi sussistono minoranze cristiane - e non solo - molto importanti, che variano tra il sette e il dieci per cento. Dimostrazione questa che in quattordici secoli d’islamizzazione la convivenza e la tolleranza hanno prevalso. Dei musulmani di Sicilia e di Spagna non v’è più traccia, eppure hanno abitato quelle terre per seicento anni. Nel campo delle persecuzioni e delle conversioni forzate siamo stati più bravi noi. Come più volte sottolineato dal Vaticano e non solo, la preservazione e la tutela delle comunità cristiane nei Paesi arabi sono un elemento indispensabile perché si affermino democrazie vere. Questo è anche il motivo per il quale il Vaticano è sempre stato fortemente critico di ogni intervento armato occidentale nei Paesi arabi.

Un altro elemento da cui non si potrà prescindere è il ruolo della Turchia. Come gli stessi Usa hanno compreso ormai da anni, quello turco è l’unico esperimento di democrazia in una nazione musulmana che possa funzionare ed essere imitato.
Bisogna monitorare e favorire l’ulteriore adattamento della rete della Fratellanza musulmana ai nuovi scenari. L’Ikhwan - il movimento dei “fratelli” - è storicamente pragmatico in politica (il che ne fa un nemico dei salafiti e dei puritani di Al Qaeda). Le ultime generazioni della fratellanza hanno quasi ovunque sposato la linea turca, secondo la quale il fine dell’impegno politico non debba più essere l’imposizione di uno Stato islamico bensì il portare piuttosto i buoni musulmani alla guida della nazione.

In tutti i Paesi arabi, la piaga più intollerabile e diffusamente esecrata è quella della corruzione. In quest’epoca di crisi economica mondiale, che i Paesi del Nord Africa hanno vissuto come se fossero propaggini allargate delle banlieue delle metropoli francesi, con una proporzione di giovani inaudita per gli standard europei, affamati di beni di consumo in città dove manca anche il pane e impregnati della cultura della rivolta urbana veicolata dai rapper franco-maghrebini, l’idea che qualcuno si arricchisca alle spalle del popolo viene percepito come un crimine contro l’umanità. E solo i buoni musulmani sembrano dare garanzie d’eticità nella politica. Il fatto che solo i Paesi in cui c’è una grande distribuzione delle ricchezze nazionali - come l’Arabia saudita - siano per il momento immuni alla rivolta, è un chiaro segno che i fattori economici sono un elemento determinante.

L’Iran, invece, ha una storia politica e religiosa a sé, quindi merita una riflessione distinta: assimilarlo oggi all’ondata di cambiamento dei Paesi arabi sarebbe superficiale. Certo è che gli sciiti sono da anni l’obiettivo degli attentati più sanguinosi dei fondamentalisti sunniti, che considerano gli iraniani un irriducibile nemico.
Cosa accadrebbe se in tutti i Paesi oggi interessati dalle rivolte, autonomamente, si adottasse un modello di democrazia come quello turco, con il conseguente - già sperimentato - sviluppo sociale ed economico? Sicuramente un freno all’immigrazione e una possibilità di autoriforma dell’Islam, per poi forse arrivare a una vera possibilità di ristabilire una crescita comune sull’asse euromediterraneo, come auspicato dal trattato di Barcellona.

di Marcello De Angelis

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