Non esiste giornalismo senza libertà, a 18 anni dall'omicidio Alfano.

di Alberto Spampinato
18 anni fa. La sera dell'8 gennaio 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto viene ritrovato, riverso sul volante della sua renault 5 rossa, il cadavere di Beppe Alfano, professore di Educazione Tecnica nella vicina Terme Vigliatore e corrispondente del quotidiano catanese "La Sicilia". Professore e quasi giornalista, non un giornalista qualunque.

Politicamente impegnato fin da giovanissimo nelle formazioni di destra - Ordine Nuovo prima e, poi, il Movimento Sociale Italiano - è un quasi giornalista scomodo. Passato dalle esperienze delle radio indipendenti degli anni 70, inizia a scrivere in occasione dell'esecuzione del nipote di un boss locale - Pino Chiofalo "U seccu" - trucidato in piazza durante una festa di paese insieme ad un ignaro amico, in una feroce faida che nel 1991 scuote l'apparente tranquillità della provincia messinese, detta la provincia "babba" perché la mafia peloritana - si credeva - non sa organizzarsi. Si occupa così della cronaca giudiziaria della provincia messinese ed è uno di quelli che non si limita a freddi e superficiali racconti di cronaca . Beppe Alfano è uno di quei giornalisti che scrive con un unico obiettivo: portare alla luce la verità. E per far questo, indaga, approfondisce, analizza fatti, legami e "intrallazzi" che si intrecciano nella sua provincia e, soprattutto, nella città di Barcellona, un centro di 45.000 abitanti in cui le cosche mafiose sono molto potenti e legate alla mafia catanese del clan dei Santapaola; e in cui i rapporti tra politica, economia e criminalità permettono il controllo di grossissimi affari che movimentano ingenti somme di denaro.

Insomma, negli anni 90 a Barcellona, con la mafia c'è poco da scherzare. A pestare i piedi alle cosche c'è solo da rischiare. E Alfano lo sa.
Ma questo non basta a farlo desistere dalle sue inchieste scomode. La voglia di verità che anima il suo lavoro di giornalista lo spinge ad andare sempre più a fondo, incurante del fatto che la sua caparbietà potrebbe costargli la vita. E allora prendono corpo alcune inchieste giornalistiche che, in maniera quasi ossessiva, spingono Alfano a indagare - ad esempio -  sulla gestione un po' dubbia dell'A.I.A.S. di Barcellona o sull'influenza del clan dei Santapaola negli affari barcellonesi e, addirittura, lo portano a ipotizzare la presenza del superlatitante boss Nitto Santapaola proprio a Barcellona (ipotesi che troverà poi numerosi riscontri e verrà confermata).

E quella caparbietà, quella determinazione, quel piglio nella ricerca della verità e il suo non voler accettare compromessi o connivenze, sono la condanna a morte di Beppe Alfano. Una condanna anche annunciata da qualcuno. "Tu al 20 gennaio non ci arrivi". E così... 4 pallottole. Una nella mano, una nel petto, una nella tempia destra e l'ultima, in bocca, quella che più di tutte da il senso di quella barbara esecuzione. Per qualcuno era ora che Alfano tacesse.

Oggi Beppe Alfano è uno dei tanti, troppi nomi che riempiono l'elenco dei morti ammazzati dalla mafia. Un esponente della cosiddetta società civile che affianca i nomi di magistrati e appartenenti alle forze dell'ordine immolatisi per il senso dello Stato e della Giustizia nella forma più alta.

Ma, tra le tante vittime di Cosa Nostra, Alfano è una figura un po' anomala. Anomalo per quel che concerne il suo ricordo. Alfano è una doppia vittima: vittima della mafia, per il suo senso del dovere. E vittima dell'oblio e dell'indifferenza, per la sua appartenenza. L'aver militato a destra, non gli permette l'accesso al pantheon dell'antimafia "ufficiale" e non gli da diritto all'onore del ricordo.

È una figura anomala sotto il profilo professionale: Alfano, il quasi giornalista, il tesserino di giornalista non lo prenderà mai. Non ci arriverà. E forse non pensava nemmeno di prenderlo, lui, un cronista fuori dalle regole - del quieto vivere, del giornalismo buonista e acquiescente e spesso imbrigliato in logiche di partito o, peggio, di malaffare - in un ordine professionale con troppi vincoli formali e troppe regole da rispettare magari ci sarebbe stato stretto.

Lui, Beppe Alfano, ha vissuto da uomo libero. Ha scritto in libertà. E, da uomo libero, ha consapevolmente sacrificato la propria vita nella sua opera di ricerca della verità.

E, nel silenzio delle "celebrazioni ufficiali", vogliamo ricordare il suo esempio: essere liberi, a qualsiasi costo. Perché, anche se i servilismi di alcuni pennivendoli di regime o le mistificazioni giornalistiche che talvolta si affiancano a oscuri fatti che ammorbano la nostra Italia, Beppe Alfano ci ha lasciato un grande insegnamento: non può esserci giornalismo se non c'è libertà! E non c'è libertà sotto l'asfissiante giogo delle mafie!

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