Studiare il senso dell’esistenza non garantisce uno stipendio. Ma a volte non se ne può fare a meno, è un dono maledetto che non si può rifiutare
Vi sembrerà strano ma capita più spesso di quanto possiate immaginare che ti avvicini o ti scriva un ragazzo o una ragazza per annunciare la sciagurata intenzione di darsi alla filosofia. E chiede consigli su come coltivare la sua perversione, in quale università rovinarsi e in qual modo farsi del male con più efficacia.
La prima risposta è «Per carità, non farlo», scatta la dissuasione per ragioni umanitarie. In una società che cerca ingegneri e infermieri, poliglotti tecnologici o badanti assai pazienti, studiare filosofia significa destinarsi oggi più di ieri a una sorte anacronistica di fame, solitudine e miseria. Poi subentra una certa vergogna per il pulpito da cui predico. Quando si è studiosi di filosofia, con l’aggravante di una laurea in filosofia contratta in giovane età, quando si è pure figli di studiosi e docenti di filosofia e quando si è perfino padri di studenti ribelli di filosofia, e addirittura zii, conviene solo tacere e nutrire compassione per la nuova vittima della filosofia. Vieni, fratello nel nostro librosario... Così subentra una più perfida argomentazione: io ti scoraggio perché è mio dovere farlo, come si usa sui pacchetti delle sigarette devo avvisarti che la filosofia uccide (di stenti, ma uccide). Ma è un test psicoattitudinale; se lo superi, se insisti, beh, allora vuol dire che non è colpa tua, è un vizio congenito, come la mia fu tara ereditaria, e non puoi farci nulla: dopo un blando tentativo di metadone - perché non dedicarti alla scienza, agli studi giuridici, alla critica, insomma a qualcosa che contiene in dosi minori la filosofia - si passa al vano esercizio di dare consigli sulla perdizione. In questa strategia di resistenza e di scoraggiamento alla filosofia sono in buona compagnia. È uscito di recente un libro-intervista di Sossio Giametta, a cura di Giuseppe Girgenti, che si chiama Il bue squartato e altri macelli. Titolo cruento e di per sé già scoraggiante, se non fosse mitigato da un sottotitolo ammiccante, La dolce filosofia (Mursia, pagg.296, euro 17). Il bue in questione non è il ragazzo che si affaccia nel macello della filosofia, e che meglio si definirebbe vitello o agnello sacrificale (oppure o' Vaccariello, come veniva chiamato a Napoli Edmondo Cione seguace fedele della Vacca Sacra don Benedetto Croce). Ma il riferimento è a Nietzsche del quale, spiega Giametta, ognuno «si ritaglia una bistecca che poi si cucina a modo suo». Ma le bistecche, osserva Sossio, non fanno il bue, soprattutto il bue vivo che pascola nei prati della sua epoca. Giametta, in effetti, ha frequentato il bue intero e non qualche lacerto, cioè tutto Nietzsche, di cui è gran traduttore da decenni, chiamato da Colli e Montinari. Giametta è pure traduttore di Schopenhauer e di altri grandi autori. Nel suo Bue squisito ci sono pagine sagaci su Nietzsche poeta, moralista e fondatore di un religione della vita (parallela alla religione dell’umanità di Comte, ma la sua è una religione della sovrumanità), pagine coraggiose in favore della pena di morte sotto il profilo filosofico, o sulla vecchiaia irreversibile del cristianesimo, ucciso dalla civiltà dei consumi. Ma il capitolo finale di questo libro, che è poi un bilancio della sua vita filosofica, è un commiato dedicato ai giovani pensatori. Giametta, 83enne, campano che vive da decenni a Bruxelles, parte proprio dallo sconsigliare ai giovani di avvicinarsi alla filosofia; fa l’esempio di un suo amico che seguì il suo consiglio di dedicarsi alla scienza anziché alla filosofia ed ha avuto successo nella ricerca delle particelle elementari. E giunge alla conclusione a cui sono giunto anch’io: «Bisogna fare filosofia solo se non se ne può fare a meno». È «la passione divorante» di Wittgenstein, di Giordano Bruno, di Spinoza e Schopenhauer; è la confessione di Paul Rèe, l’amico fraterno di Nietzsche: «Quando non avrò più materia di filosofare per me sarà meglio morire». Giustamente avverte Giametta che il filosofo non è sempre eroe etico; poi avverte che il professore di filosofia non è tenuto a essere filosofo, anche se non mancano gran filosofi professori. Però la filosofia è un fiore selvatico, non fiorisce necessariamente nei giardini appositi detti atenei; la filosofia è una mania, non un mestiere. Del resto, Giametta non è filosofo accademico, come non lo era Anacleto Verrecchia, scrittore di filosofia e traduttore, scomparso lo scorso maggio, consanguineo di Giametta in Nietzsche, Schopenhauer e Giordano Bruno. (Altro scrittore di filosofia per diletto e cupio dissolvi è il cinico Manlio Sgalambro). Sull’iniziazione alla filosofia, Pierre Hadot, studioso del pensiero antico, ha lasciato pagine smaglianti; per lui la saggezza sarebbe la conquista di «un io superiore che vede tutte le cose nella prospettiva dell’universalità e della totalità, e prende coscienza di sé come parte del cosmo».A mio vedere la filosofia nasce da un duplice sgomento: lo stupore di nascere e l’angoscia di finire, ovvero la sorpresa di esistere - la meraviglia di essere al mondo, di cui parla Platone nel Teeteto e poi Aristotele - e l’addestramento a morire - l’educazione alla morte di cui parlò per primo Socrate, poi il suo allievo Platone, e gli stoici, Seneca, e Cicerone, fino a Montaigne...
La filosofia coglie la vita sorgiva e il suo estremo svanire, osserva l’alba e il tramonto dell’essere e il nesso tra le due cose... La filosofia cerca una spiegazione al miracolo di esserci e alla disperazione di non essere più, e s’addentra a dare un senso e una misura alla vita. Perciò la filosofia è universale, per tutti; ma chi non ci dorme la notte è filosofo. Se quella è la ragione primaria che induce a filosofare, è inevitabile la sua inutilità pratica, la sua sterilità di sbocchi professionali. Ma coloro che noi chiamiamo inutili sono le vere guide, dice Platone. La filosofia è inutile ma necessaria; almeno se si crede al primato della contemplazione sull’azione e alla convinzione che contemplare sia agire su un piano superiore.
Ed è così che dopo aver scoraggiato il ragazzo incauto che si rende teorico-dipendente cedendo al vizio della filosofia, gli confesso a mezza voce: «Però io e la mia signorina stiamo bene insieme... Sto con lei e non mi manca niente» (Sembra una massima filosofica di Seneca e invece è una canzone di Neffa). Ah, la Signorina Filosofia, nubile ma tutt’altro che vergine, fa balenare la verità ai suoi maniaci in stato di lucida alterazione...
di Marcello Veneziani, da Il Giornale
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