Obama snobba il voto ebraico

Nel 2008 il presidente conquistò il 78% della comunità in America. Oggi non cita neppure una volta Gerusalemme nel suo programma


L'atteggiamento ossequioso verso l'islam non ha elevato di un millimetro la considerazione verso gli Usa, rimasti il vecchio nemico imperialista. L'unico amico rimasto vicino agli Usa, non per interesse, ma per ispirazione democratica, l'unico piccolo Hans rimasto col dito nella minacciosa falla della diga mediorentale, Obama se lo sta giocando vertiginosamente. E così forse Obama addirittura rischia la rielezione sull'altare dell'invincibile antipatia verso Israele. Un sentimento incontenibile, che invano il presidente ha cercato di limitare alla critica politica. La critica è divenuta astio, ed ormai pericolosa anche per gli Stati Uniti, per il suo prestigio internazionale.
L'ultimo episodio dimostra che Obama, nonostante gli ebrei americani abbiano votato per lui per il 78 per cento, non capisce, non sa, anzi scansa il cuore ebraico: esso si chiama in primis «Gerusalemme»; gli ebrei, unica religione, pregano voltati da quella parte, la menzionano tutti i giorni nella preghiera; quando si sposano invece di giurare fedeltà all'amato la giurano a Gerusalemme. Ma la piattaforma del partito presentata martedì durante la convention fa capire che Obama immagina come assai realistica la divisione di Gerusalemme, dato che attualmente non riconosce Gerusalemme unita come capitale di Israele, un punto vitale per la vita e la cultura stessa del mondo ebraico, ma rimanda la sua definizione secondo i desiderata del mondo arabo. Obama sembra ignorare che una città divisa diventerebbe un campo di battaglia peggiore di Belfast, che la paura diventerebbe padrona di un città invece oggi bella, curata, turistica, ricca di strutture economiche e culturali, e che i luoghi santi, ora aperti a tutte le religioni, sarebbero regolati chissà come.
La piattaforma del partito democratico, che però menziona la fedeltà degli Usa alla sicurezza di Israele e la speranza di pace, non menziona neppure una volta Gerusalemme, e ha cancellato la formula del 2008 per cui i democratici si impegnava perchè «Gerusalemme sia e rimanga la capitale di Israele». Lasciando così aperta la porta alle continue rivendicazioni arabe e alla possibile divisione. Una differenza troppo grande con la piattaforma di Romney, che attacca infatti Obama. Essa dice: «Noi sosteniamo il diritto di Israele ad esistere come Stato Ebraico con confini sicuri e difendibili e auspichiamo due stati democratici... Israele con Gerusalemme come capitale e i palestinesi che vivano in pace e sicurezza». La piattaforma democratica del 2008 chiedeva anche l'«isolamento di Hamas finché l'organizzazione non rinunci al terrorismo e accetti gli impegni di pace»; insisteva che «ogni accordo per la questione dei profughi in un accordo finale faccia del futuro stato palestinese e non di Israele, la meta dei palestinesi» e notava che «non è realistico che il risultato di qualsiasi negoziato sia il ritorno totale alle linee armistiziali del 1949». Tutto questo è sparito. Punti vitali per Israele che non esistono più nella carta. Tutto questo avviene dopo che la discussione sull'Iran ha preso fuoco nei giorni scorsi: proprio nelle ore in cui l'Aiea, l'organizzazione per l'energia atomica, testimoniava l'impennarsi della produzione di uranio arricchito nella struttura iraniana di Fordo, il generale Martin Dempsey, capo di Stato Maggiore, dichiarava che gli Usa non sarebbero mai stati «complici» (ha usato proprio questa parola) di un attacco israeliano all'Iran.
Nel frattempo gli americani restringevano il numero dei loro soldati previsti per un'esercitazione comune con l'esercito israeliano, e anche dei tecnici in grado di manovrare il sistema antimissile Patriot e il radar piazzato nel Negev che annuncia a Israele se qualcosa si alza dal cielo in Iran. Come se non bastasse, uno scoop ha suggerito (difficile verificarlo) che gli americani tramite due nazioni europee avevano proposto all'Iran un patto: noi non aiutiamo gli israeliani, voi non colpite comunque le strutture americane in Medio Oriente. La reazione di Israele è quella espressa da Netanyahu nei giorni scorsi, dopo le dichiarazioni di Dempsey: «Vi occupate di più di bloccare Israele che di impedire l'atomica iraniana». Ieri Shimon Peres ha detto al nostro ministro degli Esteri Giulio Terzi, le cui dichiarazioni sull'Iran e il cui benvenuto di Israele fa dell'Italia un amico fra i primi della fila, che ormai siamo quasi fuori tempo massimo. Ovvero, anche se le sanzioni sono l'ipotesi più facile, l'attacco non è da escludere. In questo caso, Obama sarà molto arrabbiato con Israele. Come, non lo è già adesso? E per motivi poco americani?

di Flaminia Nirestein, da il Giornale

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