“Missioni di pace” e interessi nazionali. L’impossibile ossimoro

Gli squilli di tromba si sono spenti. Il picchetto d’onore si è sciolto e la folla si è dispersa. Onore al capitano dei bersaglieri Domenico De Rosa, cinquantatreesimo caduto italiano in Afghanistan. A ricordarlo resta la famiglia, restano gli amici e i suoi “fratelli d’arme”. Dopo un istante di commozione, gli italiani — tutti gli italiani — sono tornati ai loro problemi. Gli italiani hanno altro a cui pensare.
Nulla di strano. Nulla di scandaloso. De Rosa era un soldato e, come ricordava quello splendido soldato che è il generale paracadutista Marco Bertolini, per chi indossa le stellette «morire e dare la morte è parte del destino che ci siamo scelti. Combattere, uccidere e venire uccisi è un’eventualità del nostro mestiere. È una scelta di vita che va compresa e rispettata». Da qui l’insofferenza degli uomini e le donne in divisa per le tante parole vuote che, ogni volta, accompagnano i funerali, ecco il fastidio per i dibattiti superficiali, le ipocrisie di facciata e le commemorazioni retoriche. Basta. Morire è “parte del destino d’ogni soldato”.
Nei loro fortini sperduti in Asia centrale, nelle ridotte libanesi e balcaniche, nelle missioni “coperte” in Somalia o in Pakistan, i “nostri ragazzi” sono sul campo di battaglia. Con bravura e dignità. Accanto al lavoro, vero e intenso, in favore delle popolazioni civili, i militari italiani combattono: sono colpiti, feriti, ammazzati dai loro nemici e, al tempo stesso, colpiscono, feriscono, ammazzano i loro nemici. Con professionalità e serietà. Senza esaltazioni, perché tutti, dal comandante all’ultimo fuciliere — anche il meno brillante dei comandanti e il più scemo dei fucilieri —, avvertono la tragicità del loro compito. Non vi è gioia. Come avvertiva il generale Kakehashi Kumiko, il roccioso e disincantato difensore di Iwo Jima ’44, è sempre “triste cadere in battaglia”.  Eppure si va avanti. In Afghanistan e Libano oggi, in Somalia (nuovamente) domani.

Il problema è un altro. Molto più complesso e intricato. Decisamente scomodo. Per tutti. Per l’istituzione militare — una “macchina” burocratica da sempre autoreferenziale e terribilmente gelosa delle proprie prerogative e dei propri privilegi —, per ciò che resta del nostro complesso industriale — Finmeccanica e dintorni, ma non solo — e, soprattutto, per la Politica e i politici d’ogni orientamento, d’ogni schieramento, d’ogni colore.
La questione è una. Una sola. Drammatica e ultimativa. A fonte dell’imminente ritiro italiano e dell’apertura di una trattativa tra Usa, Karzai (per quello che conta…) e gli insorti (un magma confuso ma determinato) a cosa sono serviti i nostri 53 caduti, le centinaia di feriti, i tanti mutilati, i miliardi di euro spesi in Asia centrale negli ultimi 12 anni?
Una questione secca e netta. La poniamo scevri da inutili moralismi o scempiaggini “pacifiste”, ma guardando ai nostri interessi nazionali, agli onesti egoismi che ogni Stato serio e sovrano deve tutelare e difendere.
Una questione urgente, poichè Obama ha annunciato — tramite il solito Qatar, un attore regionale molto ambizioso e sempre infido — l’inizio dei negoziati con gli avversari di oggi e (forse) i soci di domani: i talebani e le narcomafie a loro collegate. Una scelta pragmatica che prevede una soluzione realista, ovvero la conferma della tribalizzazione dell’Afghanistan (nulla di traumatico, con buona pace dei geografi non vi è laggiù alcuna tradizione statuale ma solo un miscuglio d’etnie rivali che si contendono il controllo sui traffici) e la difesa di solidi, pesanti interessi. Nella visione geopolitica statunitense vi dev’essere posto sia per i pashtun più irrequieti e il loro emirato filo pakistano (gli attuali nemici, forti nelle zone rurali) che per i pashtum filo occidentali (Karzai e i clan urbani); un posto di riguardo (anche pensando all’Iran) andrà ai tagiki sciti e agli uzbeki filo russi. Degli hazara, turkmeni, baluci e altre minoranze non frega nulla a nessuno.
L’importante per gli USA è chiudere presto e bene questa mano del “Great game”, tutelando gli interessi strategici (le basi militari nel cuore dell’Eurasia) e la messa in sicurezza dei giacimenti minerari afghani — ferro, rame, oro, cobalto, nobelio, litio —, un patrimonio stimato dagli esperti statunitensi intorno ai mille miliardi di dollari. Nulla d’inedito. La Task Force for Business and Stability Operation, creata nel 2006 dal Pentagono, è impegnata da anni a perfezionare una strategia di sfruttamento delle risorse, in particolare di quelli del litio, indispensabile all’industria informatica. Non mancano le sinergie con gli “amici-nemici”: dal 2007, Washington ha imposto all’opaco Karzai la concessione al China Metallurgical Group (per tre miliardi di dollari) della miniera di rame d’Aynak, la seconda riserva mondiale. Ovviamente vi è la questione degli oleodotti e dell’estensione in territorio afghano della strategica “Karakorum highway” che collegherà la Cina al hub portuale pakistano di Gwadar e degli intricati interessi indiani, pakistani e sauditi.  Dati, cifre, numeri sicuramente parziali e imperfetti, ma certamente significativi e rivelatori della straordinaria importanza geoeconomica della “partita afghana” che si giocherà a Doha nei prossimi mesi. Peccato che su quel tavolo non vi siederà — a parte i britannici — nessuna delegazione europea e, tanto meno, italiana.

Dal 2014 per l’Italia e i suoi soldati Kabul, Herat e i tanti fortini spersi nell’immensità delle pietraie afghane saranno un ricordo. Sulle steli commemorative che si ergono nei cortili delle caserme verrà aggiunto un rigo, una data, dei nomi. Ad ogni festa del Reggimento qualcuno deporrà una corona e un comandante darà l’attenti per i camerati caduti. Così vuole la tradizione militare.
Il problema — dell’altro ieri, di ieri e di oggi — è un altro. Come conferma il triste epilogo afghano contiamo poco o nulla. Una volta di più paghiamo una mancanza di riflessione strategica, di coerenza politica e di visione geopolitica.  Una debolezza non nuova. Da 152 anni — con alcune, ovvie e note, eccezioni — l’incertezza, la confusione degli obiettivi, il protagonismo velleitario ma inutile, ha contraddistinto l’operato dei governi nazionali. D’ogni tempo e d’ogni colore.  
Dall’UniEnità in poi, ogni volta che Roma si ricorda della necessità di una politica estera e si affaccia sugli scenari internazionali, puntualmente riaffiora la “sindrome di Crimea”: un intervento militare — possibilmente limitato — a fianco della coalizione vincente per assicurarsi un posto al “tavolo della pace”. Un calcolo che, nel 1856, Camillo Benso di Cavour riuscì; grazie allo sforzo militare nel Mar Nero — un onere pesantissimo per il piccolo Piemonte sabaudo — il callido conte strappò il biglietto per la conferenza di Parigi e aprì una fase decisiva della nostra storia. Purtroppo Camillo non lasciò eredi e nessuna replica — dalla crisi di Creta 1899 alla spedizione in Cina contro i “boxer”, dall’intervento nel 1915 al 10 giugno 1940, dalla missione “di pace” in Corea al Libano, alla Somalia, all’Iraq e all’Afghanistan — si è dimostrata vincente e pagante.
Come prima accennato vi sono le eccezioni: in Iraq, l’Eni è riuscita — grazie, va detto, ad un intervento pesante del governo Berlusconi — ad assicurarsi posizioni di rilievo e in Mozambico oggi i nostri tecnici petroliferi hanno sostituito gli alpini della Taurinense e della Julia. Dati positivi, ma, alla fine, insoddisfacenti.
Tornando all’Afghanistan, quando si farà un finalmente un bilancio onesto di questo impegno mal gestito, sarà doveroso sottolineare l’incredibile disprezzo del “sistema Italia” nei confronti dei suoi soldati. Alla luce dell’impegno dei nostri militari e delle loro (tante e sconosciute) vittorie tattiche, la nomenclatura politico-economica ha dimostrato tutti i suoi limiti culturali.
Tra i tanti esempi possibili, ci ha colpito l’agitazione di un ex ministro che ha disturbato per settimane i giornalisti esperti del teatro afghano chiedendo, in nome di un possente cartello d’investitori, informazioni sui referenti economici dell’area. Sebbene fosse stato per anni al centro di decisioni importanti, il pover’uomo ignorava ogni cosa e restava smarrito dinnanzi alle risposte dei colleghi che gli consigliavano di rivolgersi ai servizi nazionali (era o non era un ex ministro?), agli iraniani (gli investimenti potevano interessare Teheran) oppure ai referenti di Karzai. Alla fine, l’antico “potente” ammise che «l’affare è troppo grande per noi, e poi gli americani potrebbero incazzarsi». Una piccola, ignobile storia italiana che ci ricorda che la subalternità non è mai una bella cosa e, tantomeno, un affare vantaggioso. 

di Marco Valle

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