Non è Italia di pace

Caro Cav. la guerra civile continuerà e il presidenzialismo sarà solo sale sulle ferite. Vinceranno le professoresse democratiche

Magari l’avete già dimenticato. Ecco, mi prendo la briga di ricordarlo: questo è il primo fine settimana con la pace fatta.
Forse non avete dato peso alla notizia, al fatto nuovo, alla troppo bellissima cosa della svolta epocale: quella del “mettere insieme il centrodestra e il centrosinistra ponendo fine a una lunga Guerra fredda, a una guerra civile”. Ed è così, lo ha detto mercoledì cinque giugno Silvio Berlusconi e perciò la pacificazione – fatalità – è compiuta.
Ma non è così.

Tutto un mettere pietre sopra, altrimenti, dovrebbe essere la nostra fatica del sabato. Non succede però. Non è mai accaduto e non potrà capitare perché, magari oggi – per dirla con Piero Ignazi – c’è “il destino personale di immunità/impunità” del Cavaliere che carbura l’odio di buona metà d’Italia (perfino quella socialmente più attrezzata). C’è anche che la neo lingua orwelliana della destra (sempre a proposito di Ignazi che ne ha scritto giovedì sulla Repubblica) officia “il grande inganno della pacificazione” per interposto “presidenzialismo”, ma non è stata risolta neanche la nostra storia di ieri.
Nulla è risolto. Sempre che – in punto di giurisprudenza – faccia testo la dicitura apposta nelle carte d’identità, ovvero Repubblica italiana, e che nazione e popolo coincidano.
Nulla fa testo ma i figli dell’eterno Dopoguerra italiano la disuguaglianza non se la sciroppano più sul censo ma sulla presentabilità sociale sì, altro che. E ci sono italiani di serie A in aperta guerra contro italiani di serie B.
La specificità italiana, infatti, è quella della guerra civile permanente, impossibile da chiudere, a maggior ragione con il presidenzialismo perché i seguaci di Pippo, mai e poi mai potranno accettare il risultato elettorale di Topolino vincente. Se poi in questa nostra Disneyland non ha attecchito il maggioritario come può mai innestarsi il presidenzialismo?
Qui, dove il Po discende pe’ seguaci sui, non è come negli Stati Uniti dove gli elettori e i seguaci di Al Gore accettano la sconfitta, a maggior ragione se a seguito di una vittoria truffaldina di Bush, pur di mantenere l’integrità della nazione americana.
Qui, dove il Sì suona, l’unica volta in cui una truffa elettorale è passata in cavalleria, pur di salvare il salvabile all’indomani di una guerra mondiale perduta, è stato al tempo del referendum sulla Repubblica. Aveva di sicuro vinto la Monarchia ma ci si adoperò, responsabilmente (?), coi brogli per non venire meno ai patti sottoscritti con la capitolazione. Dopo di che, basta: dal Fronte popolare al Compromesso storico, dall’uccisione politica e umana di Bettino Craxi (un trauma perfino più devastante nelle conseguenze sociali del delitto Moro) alla tragedia di un Giulio Andreotti, il potere – ma anche il contropotere – è vissuto come un’entità collusa e mai come polis e dove la sinistra – il contropotere – è un imbroglio e la destra qualcosa di imbarazzante.
Sarebbe tutto uno spargere di sale sulle ferite dell’identità, il presidenzialismo, e non solo perché questa è la patria di Cola di Rienzo, la macelleria del voltafaccia, la vetrina del badoglismo, la domus del trasformismo nonché recesso in cui la chiesa di Roma esercita il proprio karma cannibalico – e su questo basti osservare come in queste ore, giusto nell’Urbe, centurie di sacerdoti, unitamente ad altri religiosi e legioni di monacelli, stiano abbracciando il candidato Ignazio Marino, loro dichiarato nemico ma in aria di vittoria, precipitando Gianni Alemanno che tanto li ha nutriti negli abissi della sconfitta…
Sarebbe solo sale perché già è tanto complicato uscire dalla dialettica nord-sud: il trauma del 5 settembre 1860, la data del commiato di re Francesco dal suo amato popolo, è lutto mai più elaborato (“Raccomando loro”, diceva il sovrano ai napoletani, offrendo loro parole d’addio, “la concordia, la pace, la santità dei doveri cittadini. Ché uno smodato amore per la mia Corona non diventi face di turbolenze”). E già è più che oscuro l’intersecarsi e il districarsi del macchinoso rovinio tra destra e sinistra dove non vale più la distinzione tra due teorie della costruzione della società ma proprio quella di due irriducibili antropologie.
La categoria del politico, giusto oggi, è quasi dismessa. Ed è già assai contorto fare i conti con quel che resta della lotta di classe, estremo argine di una dinamica sociale che, in Italia, a parte la comica messa in scena post marxiana di un Fabrizio Barca, salda la specificità alla “intuizione situazionista della società dello spettacolo”. Ha ragione Aldo Bonomi quando, in “Il capitalismo in-finito” (edizioni Einuadi), dice: “Non viviamo in un’epoca post ideologica ma massimamente ideologica”. La guerra civile non può essere finita perché l’Italia è sostanza in piena metamorfosi: “Ciò che resta nel cielo pieno di nuvole e temporali della politica”, leggo ancora Bonomi, “mi pare sia il venire a compimento della crisi di rappresentanza del lungo ciclo del Novecento”.
Lo schema offerto dalla lettura di questo saggio di Bonomi, in tema di impasto politico, è presto detto: il Pd che ha “perso vincendo”, il forza-leghismo che conclude la propria parabola di venti anni nel “declinar vincendo” e il populismo dei grillini, del “rompere emergendo”. Non ci sono più i cocci e la finale di partita è “il finale di partito” dove, mai e poi mai, potrà radicarsi un patriottismo presidenzialista che, per definizione, al di là dei consueti alleluia di Licio Gelli, subito raccolti per pura malizia, deve prescindere dal carisma personale e radicarsi, al contrario, in un destino, un orizzonte perfino geografico di popolo che l’attuale espressione – secondo lezione di Metternich – si conferma ohibò nell’irrilevanza. Per non dire dell’assenza di sovranità.
Nessuno, dunque, si percepisce “in comune” con chicchessia o, peggio, in delega a una istituzione o, meno che mai, alla sentenza chiara e definitiva che ancora oggi leggo a Lecce, sul frontone della caserma: “Nulla fuori dallo Stato, tutto nello Stato, niente contro lo Stato”.
La specificità italiana è il riflesso condizionato. Ed è fin troppo ovvio che i lapsus non cadono a caso se poi un campione della gens novissima qual è Matteo Renzi, giusto a scongiurare un anatema psicologico-culturale, debba letteralmente difendersi dall’aver incontrato Flavio Briatore: “L’imprenditore cuneese con cui sono più in sintonia è Oscar Farinetti”, precisa.
Questa precisazione, va da sé, per Renzi è d’obbligo perché ci sono almeno ventiquattromila professoresse democratiche, tutte col cerchietto fermacapelli in testa (per non dire delle più fortunate galleriste, stiliste, telegiornaliste e gastronome), che lo controllano. Ora lo fanno per punirlo nell’essere venuto meno ai principi dell’educazione – non si accettano le caramelle dagli sconosciuti, specie se poi ti portano al Billionaire – ora per tararne la qualità di democrazia: “Il primo sindaco ad aver fatto”, racconta Renzi ad Aldo Cazzullo sul Corriere, “un piano a volumi zero che ferma la cementificazione, con l’obbligo di aprire un giardino a dieci minuti di passeggiata da ogni casa, con le chiavi affidate alle mamme…”. Sarà da ridere quando dovrà pronunciarsi sulla Tav. Sarà costretto, verosimilmente, a ripiegare sulla risciacquatura dei moti di Turchia, così in voga su Twitter.
L’Italia è una figlia di mamma, solitamente professoressa. Ed è questo lo zoccolo duro dell’opinione che forse non farà i numeri della maggioranza elettorale – non l’ha mai fatta, in Italia, grazie alla stragrande maggioranza dei bru bru – ma quella del consenso totalitario però, sì, l’Italia professoressa la fa. Ed è lo stesso consenso che poi si tramuta in dettato oracolare per tramite di Fabio Fazio dagli schermi di Rai Tre, dal Festival o dagli speciali gesuscristichi, finché dura, fino a quando durerà, della vis savianea. La professoressa Italia, che è democratica, di sana e robusta costituzione, serve se stessa facendo la guardia al bidone del conformismo perché il pedaggio primo da pagare all’iscrizione nella serie A – un lusso giammai da godere coi più bassi sensi – è quello di restarsene sotto il lenzuolo corrente del sentire più che corretto.
Italiani di serie A e italiani di serie B, dunque. E in questa excusatio, nel frattempo che il povero Briatore vorrebbe portarselo il Renzi al Twiga, in Kenya o in un qualunque circuito automobilistico dove vince le sue belle medaglie di caposcuderia (e magari dargli dei soldini d’incoraggiamento al sindaco di Firenze per la sua opa sul Pd) si consuma un capitoletto dell’irrisolta identità d’Italia.
Tutti i ricchi, per non sbagliare, si buttano a sinistra, dunque anche Briatore. Anche Berlusconi, che è Berlusconi, e cioè la bestia nera della sinistra, la sua grande storia di imprenditore del Biscione, quella stessa che incide nel costume e nella decostruzione valoriale d’Italia, la scava nel solco della sovversione. Quante ne ha tolte lui di madri di famiglia dal dovere di recitare il Santo Rosario per farle stare appiccicate davanti alle tivù del dopopranzo, manco tutti i libri di Antonio Gramsci. L’Italia, fuor di paradosso, è diventata davvero di sinistra con lui. Poco importa che non sposi il garantismo all’indomani della sentenza sull’omicidio di Stefano Cucchi, poco cale che tutte le asticelle della rivendicazione dei diritti – dai matrimoni omosessuali alle coppie di fatto – siano affidati alle schegge ortodosse del partito di sua proprietà, da Galan a Bondi perché comunque il suo manovrare nell’immaginario asseconda ciò che la legislazione fatica ad affermare e quello stesso Renzi, infine, sempre per restare fuori dal paradosso, nella communitas giocosa e virtuale del Cavaliere può pure starci dentro purché si faccia valere come brand, come merce, come oggetto di scambio in ciò che resta del “capitalismo in-finito”. Non è un mistero, infatti, che l’unica vera occasione avuta da Renzi sia stata quella offertagli da Berlusconi. Giusto un presagio – sempre fuori dal paradosso, per carità – e ripetere che la sinistra in Italia la farà il Cavaliere. Anche quella del post Berlusconi.
Tutta l’applicazione della felicità compiuta del capitalismo passa attraverso la distruzione di ogni afflato verso l’Eterno. Dopo di che, certo, rispetto a Briatore chi ha buon gusto sceglie senz’altro Farinetti e non tanto perché è il campione del vino e del cibo mentre l’altro ci fa ballare a bordo piscina, ma per via della sua idea innovativa che va oltre l’obbligo di incasellarlo nella serie A (e lo è, senza dubbio), mentre l’altro, sporco di tutti i piaceri, magister dell’edonismo, peccatore al punto di lamentare il sequestro del proprio yacht, causa dell’insonnia di Falco Nathan, il suo bimbo, viene dannato dalle famose professoresse perché – ahinoi! – al di là della separazione ideologica ce n’è una ancora più pericolosa, quella antropologica. Perfino razziale a giudicare dalla reazione delle professoresse rispetto alle cravatte che ci capita di indossare e alle minigonne delle ragazze che andiamo a guatare al Billionaire.
Quello che succede nella viva carne dell’Italia è un dopoguerra che non finisce mai. Tutto un mettere pietre sopra che poi rovinano ovunque, a far macerie se poi Altan, ancora ieri sulla Repubblica, ne decretava con cinismo e turpiloquio il mettersi una volta per tutte la pietra sui “cosiddetti”. Per restare dentro la metafora della pietra sopra, il pensarci ancora malgrado sia passato mezzo secolo dall’ultima raffica di Salò e un bel po’ di tempo anche dagli anni Settanta quando c’era un morto al giorno tra gli ammazzati da mettere nel catalogo dell’odio politico, è il segno che il fiume carsico, un miasma sotterraneo a essere precisi, non ha mai smesso di scorrere.
I mediocri odiano e ripetono inconsapevolmente la guerra civile e sempre per restare nel paradosso – e però, ricordate, questo è il primo fine settimana della pace fatta – oggi che la guerra civile è finita, oggi che il centrodestra e il centrosinistra stanno insieme nello stesso governo, ci si odia ancora di più di quanto non ci si odiasse nella vergogna dell’Otto settembre per arrivare alla data conclusiva del ferro e del fuoco, quella – per come ha sempre detto Giampaolo Pansa – del 18 aprile 1948, “quando il sangue dei vinti era già colato tutto”.
La specificità italiana è tutta nella mai avvenuta pacificazione.
Paradosso per paradosso, potevano farla solo quelli che avevano imbracciato i mitra e una storia che racconta sempre Pansa è quella di Italo Pietra, già comandante partigiano, con uno specchiato curriculum di capo comunista, chiamato a succedere a Gaetano Baldacci alla direzione del Giorno, un giornale che Domenico Mezzadra, detto “l’americano”, perché nato negli Usa – un altro comunista – aveva costruito prendendo il nocciolo di due quotidiani di destra e da dove proveniva Angelo Rozzoni, classe 1911, vice di Pietra, già direttore a Milano del Foglio, quello della Decima Mas. Rozzoni, in quella redazione, non era il solo ad essere stato nella Repubblica sociale italiana e ogni mattina, quando si riunivano al tavolo della riunione, a mo’ di tormentone, Italo Pietra domandava loro: “Vorrei sapere chi, nell’agosto del 1944, ha bruciato la mia casa sul Penice”. Ed era tutto un sarcastico e pacificato rimbalzo tra italiani del paradosso: “Io no perché stavo nella Brigata Nera del pavese”, diceva uno. “Io stavo con Pavolini”, si giustificava un altro. E poi ancora: “Io ero nel plotone della Guardia Nazionale Repubblicana…”.
Il sangue dei vinti era già colato tutto, era già passato il 18 aprile del ’48 e siccome capita di dimenticare è finita che la guerra civile non finisce mai senza più la necessità di mettere in conto il regolamento tra vincitori e vinti, ma solo lo spargere di sale tra le ferite di uomini che stanno dentro e di altri che stanno fuori, tra storie che meritano i riflettori e altre che si bruciano nell’esorcismo. Fosse pure sulle punte di babbucce trapuntate. Quelle del libero accesso al Billionaire.
di Pietrangelo Buttafuoco

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