Tessera dopo
tessera, pezzo dopo pezzo lo scompaginato puzzle inizia a ricomporsi. A
prendere forma e senso. Ci riferiamo all’opaca trama che portò alla
defenestrazione di Silvio Berlusconi il 12 novembre 2011. In verità le
“rivelazioni” di Alan Friedman sul ruolo determinante del Quirinale in
quel farraginoso contesto non ci sorprendono e non ci stupiscono. Anzi.
Andiamo per
ordine. Unico vero “merito” del giornalista americano è la
formalizzazione e la tempistica di una vicenda complessa ma non
misteriosa. Da subito — almeno dal 6 luglio, quando Napolitano bocciò
sonoramente la manovra di Tremonti — fu evidente il differente peso
politico del presidente della Repubblica e altrettanto chiare furono le
interferenze e le pressioni straniere. In quel tempo l’’agonia
del governo Berlusconi fu punteggiata e ritmata dai moniti della BCE,
dal crescere smisurato (quanto sospetto) dello spread, dai tonfi della
Borsa, dai declassamenti di Moody’s e dalle ironie intrecciate ad aperta
ostilità dei patners occidentali.
Il punto
d’arrivo fu il 3-4 novembre al G-20 di Cannes, la Waterloo
dell’ammaccato premier. In quella sede, come racconta nelle sue memorie
Josè Luis Zapatero, Berlusconi e Tremonti — ormai fuori controllo —
furono convocati ad una cena ristretta e processati (Zapatero dixit)
per due ore e più da Obama, Merkel, Sarkozy, il premier spagnolo
(ovviamente) e dai vertici del FMI. Il nove novembre i titoli Mediaset
crollarono rovinosamente; tre giorni dopo, con “viva e vibrante
soddisfazione” del Colle, Mario Monti era il nuovo primo ministro.
Certo, Friedman
dalle pagine del Corriere — prestigiosa e non neutrale tribuna —
aggiunge alla narrazione particolari inediti e — almeno per Napolitano —
molto imbarazzanti. Un dato che fa pensare, riflettere. Al netto dei
complottismi e delle paranoie, è difficile pensare ad semplice un
susseguirsi di fatti casuali e di mere coincidenze: Friedman non è
certamente un novellino e Monti, De Benedetti e Prodi (le fonti primarie
della ricostruzione) non sono tre sprovveduti. Qualcosa di decisivo
dev’esser quindi accaduto in qualche strambo posto per instradare il
prudente quotidiano di via Solferino su un vicolo così sdrucciolevole
come quello che porta alla delegittimazione del presidente della
Repubblica (e, probabilmente, alla riesumazione di Prodi o all’elezione
di Draghi…). Vedremo.
Intanto, tra le
tante analisi editate in questi giorni la più convincente, a nostro
avviso, rimane quella di Marcello Foa pubblicata su Il giornale.it. Con
la solita lucidità, il giornalista legge gli avvenimenti in modo
inconsueto ma efficace: «Come Gianfranco Fini, anche Giorgio pensava di
essere arrivato, di appartenere a pieno titolo alla super élite
transnazionale. Entrambi si sentivano intoccabili; non capivano, però,
che le logiche di quell’establishment sono diverse da quelle dei
partiti, che le loro leggi, non scritte, sono implacabili e,
soprattutto, che non tutti i membri sono uguali. Al suo interno c’è chi
conta di più (come Draghi senza dubbio) e chi di meno (come quasi tutti i
politici italiani); chi sa e chi non sa; chi viene cooptato nel girone
divino e chi, pur partecipando, resta ai margini. Ecco, Napolitano
apparteneva alla seconda categoria. E ora che non serve più o forse
semplicemente perché ha deluso, viene abbandonato a se stesso. Con
modalità che sono proprie di quegli ambienti, usando come sicario un
giornalista americano, che di nome fa Alan e di cognome Friedman».
Ma,
al di là delle responsabilità e delle sorti dell’attuale inquilino del
Quirinale, vi è qualcosa di questa storia — anzi, molto — su cui il
cronista statunitense sorvola o ignora. La crisi del governo Berlusconi
viene da più lontano ed ha motivi endogeni ed esogeni. Sorretto da una
maggioranza, dopo la defezione di Fini, sempre più debole e frantumata,
Berlusconi colpevolmente sottovalutò i suoi limiti personali e,
soprattutto, i “paletti” imposti all’Italia. Convinto della sua “buona
stella”, il Cavaliere cercò di rilanciarsi sullo scenario internazionale
rafforzando i legami con la Russia di Putin, la Libia di Gheddafi e,
cautamente, con la teocrazia iraniana. Per di più, ormai insofferente
dei diktat di Bruxelles, Berlusconi tentò di porre in discussione
l’ortodossia eurocratica e l’asse franco-tedesco. Sfide importanti, idee
forti che, però, necessitavano per riuscire di un vero statista e di un
personale adeguato al compito.
Purtroppo
il Cavaliere è tante cose — alcune insopportabili, altre simpatiche —
ma non è uno statista e il suo entourage era e rimane quanto meno
discutibile. Da qui le campagne transalpine — principalmente di conio
tedesco e britannico — sugli scandali del “vecchio sibarita” di Arcore,
l’isolamento internazionale, la pressione montante delle agenzie e di
Bruxelles sui conti italiani; poi, all’indomani della firma di un
colossale accordo economico italo-russo-libico, l’imposizione della
guerra contro Gheddafi. In quel gennaio del 2010, Berlusconi fu
costretto a cedere rovinosamente, ad aprire le basi agli “alleati” e,
infine, bombardare l’ex amico e principale cliente e fornitore. Le cose
sono note. Con la rinuncia ad ogni ruolo autonomo nel proprio “cortile
di casa”, il governo di centro-destra preparò la propria esautorazione.
Il resto lo fece Tremonti.
Poteva
andare in altro modo? No. A quelle condizioni e con quei personaggi,
era impossibile resistere alla pressione dei poteri finanziari e delle
potenze straniere. Vi sarebbe voluto un atto d’orgoglio, certo; ma è
immaginabile un Cavaliere far appello — tra un bunga bunga e un Verdini —
all’onore nazionale e ai “destini della Patria”? Francamente no.
La
“grande politica” è un esercizio duro e razionale. Gli stati, come
avvertiva il vecchio Hegel, sono “mostri freddi” eterodiretti da un
establishment chiuso, spietato ma capace di progettualità storiche. Come
ricordava Charles De Gaulle, per opporsi a questo incastro di poteri
non benevoli servono “pensieri lunghi” e immagini potenti intrecciati a
pazienza, determinazione, realismo. E tanta dignità. Non è il caso del
defunto centro-destra italiano.di Marco Valle
Commenti
Posta un commento