Sorrentino ha vinto. Il moribondo cinema italiano ringrazia e sussulta
di gioia. L’Oscar a “La grande bellezza”, film elegantemente mortuario,
restituisce un soffio di vitalità al corpaccione purulento di Cinecittà.
Viva dunque Sorrentino (e la Medusa berlusconiana…), viva l’Italia,
viva Roma. Poco importa se Gep Gambardella – Toni Servillo trimpelli per
due ore in una città cariata, malata, un’enorme pozzanghera morale
popolata da personaggi imbarazzanti, viscidi. I nuovi mostri. Nulla di
strano, la Roma allucinata, postfelliniana di Sorrentino non è un incubo
ma è disperata realtà. La crudele citazione di Louis Ferdinand Celine
in apertura non è casuale.
Tra un aforisma e l’altro, il Virgilio di Sorrentino — uno scrittore cinicamente dolente quanto sfigato — indugia e si nutre della mediocrità del presente fingendo d’ignorare la maestosità monumentale del passato. Un passato ingombrante e ineludibile, distante e ormai inafferabile, la vera grande bellezza.
Gep preferisce nuotare, o meglio sgusciare, immerso in una folla d’inetti e parassiti, disprezzando e disprezzandosi. Un paesaggio liquido e senza speranza in cui tutti, come nella poesia di Kavafis, sembrano attendere l’arrivo dei barbari — qualsiasi barbaro possibile — poiché “quella gente è la soluzione”. Per farla finita, per smarrirsi definitivamente. Per chiudere un tempo scaduto. Un tempo senza amore, senza senso.
Il risultato è un gioco lezioso che, al netto di alcune forzature (le suore e le nane, i ripetuti dolly, gli inutili cammei degli inutili amici del regista) finisce per intrigare e — a tratti — convincere.
Sorrentino ha vinto (meritatamente) raccontando la vuotezza di un paese malato, la tristezza senza fine di una città ormai perduta. Inutile il confronto con la “Dolce vita”: Fellini narrava le esasperazioni e le volgarità una capitale e di una Nazione ottimista, superficiale ma vincente; il regista napoletano raccoglie, con indubbio mestiere, i rantoli e le convulsioni di un paese destrutturato e perdente. Gli impomatati giurati del Dolby Theatre hanno sbagliato: “La grande bellezza” meritava l’Oscar per il miglior documentario. L’Italia è questa. Purtroppo.
di Marco Valle
Tra un aforisma e l’altro, il Virgilio di Sorrentino — uno scrittore cinicamente dolente quanto sfigato — indugia e si nutre della mediocrità del presente fingendo d’ignorare la maestosità monumentale del passato. Un passato ingombrante e ineludibile, distante e ormai inafferabile, la vera grande bellezza.
Gep preferisce nuotare, o meglio sgusciare, immerso in una folla d’inetti e parassiti, disprezzando e disprezzandosi. Un paesaggio liquido e senza speranza in cui tutti, come nella poesia di Kavafis, sembrano attendere l’arrivo dei barbari — qualsiasi barbaro possibile — poiché “quella gente è la soluzione”. Per farla finita, per smarrirsi definitivamente. Per chiudere un tempo scaduto. Un tempo senza amore, senza senso.
Il risultato è un gioco lezioso che, al netto di alcune forzature (le suore e le nane, i ripetuti dolly, gli inutili cammei degli inutili amici del regista) finisce per intrigare e — a tratti — convincere.
Sorrentino ha vinto (meritatamente) raccontando la vuotezza di un paese malato, la tristezza senza fine di una città ormai perduta. Inutile il confronto con la “Dolce vita”: Fellini narrava le esasperazioni e le volgarità una capitale e di una Nazione ottimista, superficiale ma vincente; il regista napoletano raccoglie, con indubbio mestiere, i rantoli e le convulsioni di un paese destrutturato e perdente. Gli impomatati giurati del Dolby Theatre hanno sbagliato: “La grande bellezza” meritava l’Oscar per il miglior documentario. L’Italia è questa. Purtroppo.
di Marco Valle
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