Il
momento magico di Francesco durò solo un attimo: dall’autunno del
“predellino” alla caduta di Prodi e la conseguente capitolazione di Fini
(sigillata dalla liquidazione di AN). Una volta incassata
l’incorporazione finiana nel nascente PDL, il callido sultano di palazzo
Grazioli scaricò senza problemi Teodoro, Francesco e un’incazzatissima
Daniela. A Trieste nel febbraio 2008, al suo primo congresso, La Destra
si ritrovò spiazzata, divisa. Senza ruolo. A nulla servirono i viaggi ad
Arcore, le discussioni e gli strilli della Santanchè. A Silvio, ormai
lanciato verso Palazzo Chigi, i destristi non servivano più.
Contro
ogni previsione, La Destra accettò la sfida e s’impegnò in una
pirotecnica campagna candidando la furibonda Daniela — ricordate la Frau
Blucher di Paola Cortellesi?— come premier strappando quasi il tre per
cento. Un successo, nonostante l’esclusione dal Parlamento, che però
Storace non riuscì a valorizzare, a capitalizzare adeguatamente. Il
resto della vicenda si ridusse ad susseguirsi di pessimi risultati
elettorali, rotture, litigate, accuse reciproche, micro scissioni e
derive iper identarie, appelli nostalgici, sterili. Poi la morte di Teodoro, l’uomo simbolo della militanza e dell’integrità.
Ormai
solo, incapace o/e impossibilitato a giocare un ruolo di primo piano,
Storace ha preferito evitare ogni strutturazione seria (a parte il Lazio
e qualche frammento locale) sul territorio e mantenere il movimento in
uno stato gassoso, indefinito. Una scelta miope per i militanti fedeli e
incomprensibile per i potenziali elettori ma, alla luce dei fatti
odierni, per Francesco pagante. Con poca fatica, Storace chiude un
percorso ormai amaro ed economicamente insostenibile e riapre un
discorso — mai in realtà veramente interrotto — con un Berlusconi
indebolito e perdente.
Francesco
sa bene che per l’ex Cavaliere oggi ogni percentuale, seppur minima, è
preziosa per non esser scavalcato da Grillo, per mantenere il suo peso
politico, per dimostrare d’esistere. Quindi si può ragionare e, magari,
accordarsi su nuove basi. Poco importa, a questo punto, il futuro di
un’area politica e culturale dispersa ma non ancora defunta. Troppi i
rancori accumulati nel tempo, troppe le delusioni e le illusioni
disperse e infrante, troppa la fatica inutilmente sprecata. Meglio
riposare e, come l’Amleto di Shakespeare, dimenticare ogni cosa: To die, to sleep, maybe to dream.
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