Piazza del Popolo, il giorno dopo. La destra dispersa e la destra possibile

Gennaro Malgeri nel suo sofferto Epitaffio per la destra (romana) che fu, pubblicato sul Tempo e ripreso da Destra.it, ha centrato “il problema” di un mondo umano e politico lacerato, confuso, deluso. Riflettendo sull’evento di piazza del Popolo — un successo pieno di Salvini e dei suoi alleati —, Gennaro ha ricordato ai tanti immemori il peso simbolico di quello splendido frammento di Roma. Piazza del Popolo per milioni d’italiani onesti, liberi è storia e memoria, orgoglio e passione. Bella politica e “Sole che sorgi”.
Per Malgeri una vicenda terminata, finita. Malamente. Tristemente. Siamo d’accordo. Ma la kermesse salviana ci impone altri ragionamenti. Al di là delle nostalgie —rispettabili ma sterili — e dei destini privati di un personale politico sconfitto, rimane la necessità di immaginare un futuro possibile — dignitoso e, magari, vincente… — per un segmento importante dell’elettorato, quella destra diffusa, popolare e anti oligarchica, nazionale e moderna ingannata e tradita dal ventennio berlusconiano. Si tratta di un giacimento immenso d’energie e speranze, un popolo che non si accontenta della protesta —pittoresca, roboante, retorica —o di simbologie defunte, ma attende finalmente un progetto politico culturale serio per il governo del Paese.
Un compito terribile e affascinante che non può essere delegato ai falliti di ieri —gli “addetti ai lavori”, le piccole nomenklature parlamentari, i trombati — ma che passa attraverso un dibattito e un confronto tra i pochi interlocutori politici ancora credibili (pensiamo a Giorgia Meloni, ma non solo) e le tante intelligenze disperse, i laboratori d’idee, i movimenti reali (in primis Casa Pound, ormai solido attore centrale), le categorie sociali di riferimento. Uno sforzo pesante che implica umiltà e pazienza, lucidità e, soprattutto, capacità di saper distinguere tra alleanze tattiche e prospettive di lunga durata. Ancora una volta è tempo di responsabilità, realismo politico e “pensieri lunghi”.
Rinunciare significa consegnarsi una volta di più ad un “papa straniero” (dopo quello di Arcore, un padano o un pugliese…), accettare subalternità imbarazzanti, crogiolarsi nella sindrome de “l’ultima spiaggia”, rassegnarsi al marginalismo. Al nulla.

di Marco Valle

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