LA RESA DEI CONTI
Voleva tornare protagonista muovendosi dietro le quinte Ma ancora una volta ha sbagliato tempi e alleati
Voi lo vedete così com’è oggi, Gianfranco Fini. Una specie di souvenir dalla Seconda Repubblica. Eppure, c’è stato un momento in cui il cielo con un dito lo toccò davvero. Era il 28 marzo 2009, seconda giornata del faraonico congresso di fondazione del Pdl. Colui che aveva portato la destra repubblicana alla definitiva svolta esistenziale fece un intervento ampio, disegnando il centrodestra del futuro, con forti iniezioni laiche che, per quanto anche contestabili, erano compiutamente costruite, l’individuazione della crisi economica come figlia del capitalismo senza regole. E l’auspicio che il Pdl diventasse un «partito di contenuti che perlomeno si interroga sui problemi del domani». Subito saltò agli occhi la differenza con il discorso di Berlusconi del giorno prima. Troppo proiettato sullo «ieri», troppo elencativo com’era uso nella sua oratoria da uomo di governo, infinitamente inferiore rispetto a quella da leader dell’opposizione: e il ’94 e la discesa in campo, e noi e loro e bla bla. Insomma, in quel momento, si ebbe l’impressione di aver trovato consolo alla domanda impronunciabile da sempre aleggiante sul centrodestra: «E dopo Berlusconi?». La risposta era lì, in quegli occhialetti, volto abbronzato e la mano in tasca. Però era stato solo un lampo. Perché nei mesi e negli anni che seguirono si ebbe la Pompei di un mondo, di un’idea, di un eredità politica. La destra, come pilastro del centrodestra. Il crollo di tutto, mese dopo mese. Lo sfarinamento della critica ad un progetto nato male e montato peggio (il Pdl), nella polvere di un‘acredine e risentimento personali dell’eterno presunto delfino contro il leader a cui vuol fare le scarpe. La sfida di Fini a Berlusconi, cominciata con quel gesto diventato molto «pop», il «che fai mi cacci?», ben presto fu attratta dalla calamita dell’antiberlusconismo più strisciante. Dove Fini convisse con magistrati engagé, moralisti radicalchic e avanzi da movimentismo sinistrorso. Che lo amavano di finto amore, ma lui c’era cascato. C’è qualcosa che non va se quello che, su designazione neomonarchica di Almirante, era stato innalzato a leader della nuova destra, diviene icona dei Republicones, di quel mondo al caviale abituato a rivolgere eguale odio sia al nemico Berlusconi sia agli elettori suoi che (sottolineato due volte) degli alleati. Fini ha tentato di traghettare la destra dal postfascismo verso una sponda che non trovasse più barriere nel suo passato. Un’operazione che non è isolata nei suoi principi, basti pensare alla cosiddetta dediabolisation di Marine Le Pen. Ma, nel caso di Fini, questo percorso è sfociato nelle sabbie mobili che hanno finito per risucchiarlo. L’incolore Terzo Polo, con Casini e Rutelli, il montismo più ossequioso quando tutti erano montiani. Prima ancora, le suggestioni facili del potere che deriva dai ruoli. Frequentazioni elitarie, convegni nei panel più autorevoli, ma anche le punte sgradevoli e macchiettistiche come la nota vicenda della casa di Montecarlo, le «colpevoli leggerezze» come le immersioni estive in aree protette, le polemiche su scorte e autoblu. Il Fini di governo dissolto in quello di Palazzo che si piace prima di piacere. La scelta di temi belli, semplici e comodi, De Gasperi e Giolitti migliori statisti del ‘900 e tanta zuccherosa retorica sulla cittadinanza. Quando, al contrario, la destra è ruvida, difficile e scomoda. Come difficile e scomodo è il suo popolo. Che non andava dimenticato. Quel popolo che ti parla di «sezioni», di «militanza». Quel popolo che si incazza perché Almirante non ha una via a Roma. Che magari dice «negro» o «frocio». E che fa tutte queste cose ancora oggi, nel 2015, quando persino la sinistra in Parlamento ha messo i tacchi a spillo e le minigonne. Ecco, con quel popolo lì, Fini ha compiuto lo strappo. L’effetto si è visto in quel grigio 5 novembre 2012, alla Basilica di San Marco a Roma, dove si svolgevano i funerali di Pino Rauti. L’allora Presidente della Camera si presentò a sorpresa e fu sommerso da una ferocissima contestazione di tanti militanti presenti alle esequie. Una scena, brutta quanto esplicativa che era accaduto qualcosa di irreversibile. Segno che l’ultima «svolta», appunto, era stata verso sabbie mobili. Non lo era stata Fiuggi, nel ’95. Non lo era stata persino l’Elefantino, nel ’99, quando, alleandosi con Segni alle Europee, provò ad appiccicare ad An un brand liberale, ma fu bastonato: 10,28% e appena 9 seggi. Non lo era stata il Pdl, nonostante ben presto Fini avesse cominciato a prenderne le distanze con costanti distinguo sui principali temi in agenda. Al contrario, con l’uscita dal governo Berlusconi e il passaggio all’opposizione dai toni più feroci, Fini uccise l’ambizione di un percorso di evoluzione tra il ‘900 e il 2000, iniziato con la sua candidatura nel ’93 a Sindaco di Roma. La destra di governo era diventata pseudodestra di potere. L’esito di tutto questo è ben noto. Futuro e Libertà, l’ultima creatura finiana, è sparita dalla geografia politica italiana dopo aver ottenuto percentuali lillipuziane alle elezioni politiche del 2013. E lui, il fu leader, ha provato a rimettersi in gioco con qualche convention andata male, un saggio, alcune ospitate televisive e un certo interventismo dietro le quinte in vista dell’Assemblea della Fondazione An. Ma a volte, invece di cimentarsi in malriusciti revival, sarebbe meglio tenersi l’album delle fotografie. Oggi, quello che rimane della vicenda di Fini è un’importante lezione culturale. Perché un conto è l’evoluzione politica, ben altro conto è il tentativo di affrancamento da un’identità che si ritiene scomoda. E la destra, purtroppo, o è identità o non è. Aver voltato le spalle a tutto questo, sì, è stato il vero tradimento.
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