La tesi del suo editoriale pubblicato lunedì è dunque la seguente: a fronte dell’isolazionismo in cui l’America cadrebbe con il favorito tra i repubblicani Donald Trump (e con lo sfavorito tra i democratici Bernie Sanders), Hillary Clinton rappresenterebbe la continuità con “quell’internazionalismo variamente declinato” che da Roosevelt in poi ha dominato la politica estera americana e che si sarebbe interrotto con il capitolo di Barack Obama. Eppure a vedere dall’operato in qualità di Segretario di Stato, vediamo come l’internazionalismo “clintoniano” tanto acclamato da Panebianco assomigli più a quello di George W.Bush piuttosto che a quello “realista” di Kennedy o di Reagan. La signora Clinton è infatti alle origini delle scelte di politica estera più scellerate degli ultimi anni che hanno danneggiato l’Europa, in particolare sul piano dell’afflusso di profughi dal Medio Oriente e alla sovraesposizione geografica relativa al terrorismo (vedi i doppi attentati a Parigi). Basti poi pensare al sostegno americano al fondamentalismo dei Fratelli Musulmani durante le “primavere arabe”; alle aggressioni alla Libia, al Mali, alla Costa d’Avorio; alla firma, in un primo momento, delle sanzioni economiche contro l’Iran e la Russia; alle dichiarazioni guerrafondaie contro la Siria di Bashar Al Assad; per non parlare della pianificazione del Trattato Transatlantico sul commercio e gli investimenti.
Così mentre i popoli europei chiedono meno America, Angelo Panebianco elemosina la vittoria di Hillary Clinton e mette in guardia lettori ed elettori su Trump e Sanders, i due populisti semi-outsider di questa sorprendente tornata elettorale. Il primo, per la sua ricetta politica articolata su protezionismo economico e isolazionismo (addirittura una sua vittoria favorirebbe “Putin e i suoi amici” scrive). Il secondo invece si limita a catalogarlo tra gli isolazionisti. Nemico della dittatura di Wall Street, il senatore del Vermont ha puntato su quelle fasce della popolazione relegate a margine dall’establishment, raccogliendo la maggior parte dei consensi tra i giovani e i delusi dalla retorica politica liberale-libertariadem. Ciò che spaventa gli americanisti di maniera europei è proprio il fatto che Sanders si collochi nella tradizione socialisteggiante e non bellicista rappresentata nel Novecento da scrittori come Mark Twain, Henry James, John Dewey Edgar Lee Masters, Ezra Pound. O da animali politici come Padre Charles Edward Coughlin, sacerdote statunitense, fondatore del National Union for Social Justice, un partito con milioni d’iscritti a favore delle riforme monetarie, della nazionalizzazione delle grandi industrie e delle ferrovie e della tutela dei diritti dei lavoratori, e Charles Lindbergh, aviatore, leader dell’America First Commitee, movimento isolazionista e trasversale, che contava 800mila membri.
Così a 15 anni dagli attentati dell’11 settembre, agli sgoccioli del secondo mandato di Barack Obama e alla vigilia di nuove elezioni vissute tra disagi e disaffezioni, in un quadro mondiale di instabilità a tutti i livelli, tra primarie incerte articolate sulla crisi dei partiti tradizionali, cosa significa parlare oggi in Europa di America? In che modo dobbiamo guardare Oltreoceano? Ha senso discutere di un eccezionalismo americano? A dibattere su questa tematica appassionante quanto attuale saranno Alain De Benoist (saggista e editorialista della rivista francese Eléments), Luca Giannelli (giornalista La7 e autore di “New York Confidential”) e Marcello Foa (direttore del gruppo del Corriere del Ticino, editorialista de Il Giornale e autore de “Gli stregoni della notizia”) introdotti da Lorenzo Borré e moderati da Lorenzo Vitelli (direttore della casa editrice Circolo Proudhon) e Sebastiano Caputo (direttore de L’Intellettuale Dissidente). L’incontro si svolgerà sabato 2 aprile alle 17 in Piazza San Salvatore in Lauro 15. L’ingresso sarà libero fino ad esaurimento posti (220 posti a sedere).
di Sebastiano Caputo, Blog Il Giornale
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