Se il capo dell’Eliseo François Hollande ha consegnato poche settimane fa, nel silenzio più totale, la legion d’onore al principe ereditario Muhammad bin Nayef Al Saud, vice presidente del consiglio dei ministri e capo degli Interni del Regno, per il suo impegno nella lotta al terrorismo (sic!); se Angela Merkel ha ceduto più volte alla strategia del presidente Erdogan che utilizza l’esodo dei rifugiati siriani come ricatto e allo stesso tempo come arma puntata verso l’Europa; se John Kerry viene al vertice anti-Daesh a Roma per spiegare ai suoi alleati che Assad è il male assoluto; se Israele minaccia i candidati in corsa per la Casa Bianca sugli accordi di cooperazione con Teheran; se su ordine saudita, prima il Consiglio di cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar) poi la Lega Araba hanno dichiarato ufficialmente la milizia sciita libanese Hezbollah, sì la stessa che combatte Daesh in prima linea da oltre cinque anni, come “organizzazione terroristica”. Insomma se questo è l’andamento della politica estera occidentale non c’è poi da stupirsi se le bombe esplodono di nuovo nel cuore dell’Europa.
Gli imbecilli cantano e gli stolti piangono, ma di geopolitica del Terrore non se ne sente proprio parlare perché l’equazione è troppo scomoda agli occhi di chi deve raccogliere consenso: c’è chi il terrorismo lo esporta, i nostri alleati, e chi invece lo combatte. Bisogna scegliere da che parte stare e chiedersi: la crociata statunitense in Medio Oriente iniziata nel 2001 ci ha resi più sicuri?
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