Pistola alla tempia, da europei, meglio un provincialotto a parole isolazionista.
L'errore più eclatante commesso dall’osservatore politico nostrano, è quello di seguire le elezioni americane attraverso la lente d’ingrandimento della stampa patinata newyorkese. I finanziatori delle più grandi testate statunitensi sono gli stessi che appoggiano Hillary Clinton contro Trump. Da qui si capisce per quale motivo è stata montata quellapolemica priva di spessore sul sessismo peraltro presa sul serio da tutti i big repubblicani. Una scusa bella e buona per scaricare un outsider del partito in cambio di qualche investitura politica. Sbagliano i sostenitori della teoria del “candidato civetta”. Dietro la corsa di “The Donald” esiste un’epica quasi leggendaria raccontata magistralmente dal giornalista Mattia Ferraresi nel libro La febbre di Trump. Un fenomeno americano (Marsilio Editore). È la storia di uomo eccentrico dai tanti volti, spin doctor di sé stesso, che ha saputo coniugare la dottrina paleocons – individualista e isolazionista – all’utilizzo di un linguaggio semplice e trasparente, supportato dal genere comico, e da una retorica avversa ai circoli intellettuali e di élite. Il “destino manifesto” di Trump affonda le radici in una lunga tradizione nazional-popolare costruita allo stesso tempo a sua immagine e somiglianza. Pater Familias, businessman, signore di casinò, icona pop dei reality show, comparsa hollywoodiana, il tycoon di Manhattan incarna tutte le aspirazioni profonde e i sogni proibiti dell’America impoverita e stanca del politically correct.
Eppure tutti contro uno. Lo Star System gli da addosso assieme allo storico cartone animato “The Simpson”, in cui Matt Groening, nell’ultima puntata, ha disegnato un inedito Vladimir Putin travestito da elettore americano e sostenitore di Trump mostrando de facto, la vicinanza alla candidata democratica. Così anche i sondaggi – un’arma fortissima per manipolare l’opinione pubblica – non fanno sconti all’outsider repubblicano. Benché la loro validità sia dubbia, ce ne è stato uno dell’istituto Rasmussen che è stato insabbiato da tutti i grandi mezzi d’informazione. L’ultima rilevazione pubblicata indicherebbe infatti una straordinaria rimonta del tycoon che supererebbe Hillary Clinton di due punti, 43 a 41 per cento. Il sondaggio è stato effettuato lunedì scorso all’indomani del secondo dibattito televisivo, a conferma che il coro filo-democratico accettato acriticamente da giornali e televisioni europee era palesemente non oggettivo.
Ebbene da europei, pistola alla tempia, è doveroso fare una scelta. Se Hillary Clinton è la candidata delle banche d’affari, delle monarchie del Golfo, dell’apparato militaro-industriale, dei neoconservatori e dei circoli intellettuali e di élite, allora tanto meglio puntare su un provincialotto d’Oltreoceano, a parole isolazionista, che non aspira a giocare a “globocop” e “Stati Canaglia”. Anche Obama, nel 2008, era il leader della distensione. Nel celebre discorso del Cairo aveva promesso di mettere la parola fine alla crociata iniziata da Bush in Medio Oriente contro il mondo arabo-musulmano e persiano. Col passare dei mesi la power élite ed il Pentagono lo hanno ricomprato costringendolo a sostenere vecchi e nuovi fronti di guerra (Libia, Mali, Costa d’Avorio, Yemen, Siria e Iraq). Lo Stato profondo non accetta slogan. Ecco che le buone intenzioni di Donald Trump in politica estera (eccetto sulla questione israelo-palestinese) verranno seguite attentamente con un metro di giudizio severissimo. Al primo tradimento insorgeremo.
di Sebastiano Caputo
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