Genova. Con la sua storia indissolubilmente intrecciata a quella della sinistra italiana. Dove il proletariato qui era, ed è ancora, incarnato dai volti segnati dal sole e dalla salsedine dei camalli portuensi. Genova e il suo potere di veto con il quale, negli anni ’60, scelse di dare lo sfratto al governo Tambroni. Genova che non è più roccaforte socialista ma in maniera dignitosa, come si deve ad una nobildonna decaduta, mostra i segni di un passato che forse, probabilmente, sta davvero passando. Genova addirittura si rivela quale metafora del centrodestra italiano che, per non so quale maledizione, si è atomizzato per poi procede in ordine sparso in un caos di orientamenti e visioni e sensibilità, tanto da somigliare a quella ragnatela di carruggi e creuze genovesi viste dall’alto. Un labirinto di percorsi, strade anguste, mulattiere che nonostante condensino in sé l’essenza di un viaggio non danno mai la certezza di un approdo sicuro. Ma ora tutti questi vicoli ideali sembra che abbiano trovato il loro sbocco naturale sul porto degli antichi, ma mai superati, valori. E l’orizzonte è qui che si staglia davanti ai nostri sguardi liberi e liberali. Genova è un appuntamento con la storia che non possiamo mancare perché se Genova cede alle nostre lusinghe nulla sarà più come prima. A quel punto ogni qual volta emergeranno spaccature e divergenze dovremo nuovamente volgere lo sguardo verso la città dei Doria e ripensare a quel che disse De Andrè facendo finta, anche per un solo istante, che si riferisse proprio a noi: “E se alla sua età le difetterà la competenza presto affinerà le capacità con l'esperienza”. Genova dovrà essere il punto di svolta, il mitico cambiamento che tanti elogiano ma del quale pochi sanno davvero coglierne l’essenza. Un punto e a capo con le nostre divisioni. Consapevole e duraturo. Ed il tempo trascorso assumerà le sembianze di un canto genovese pronto a dissolversi sotto l’effetto del grecale: “Stu ténpu, ch’u s’è pigiòu a beléssa e u nòstru cantu, pe ripurtane inderée sénsa ciü un sensu, ma òua che se vedemmu, dumàn tüttu u cangiàa”.
di Luca Proietti Scorsoni
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