MACRON E QUEL VIZIO CHE ALEGGIA ANCHE DA NOI

Che l'intenzione di Macron sia quella di difendere l'interesse nazionale è palese, oltreché lapalissiano per un leader governativo, che poi riesca pure nel suo intento è tutto da dimostrare. Anche perché, vada per l'ottimo lavoro svolto in sede diplomatica alla voce Libia, ma tutt'altra storia è quella legata alla nazionalizzazione di Stx. Qui Macron potrebbe incappare nell'errore tipico di coloro che reputano sempre cosa buona e giusta tutelare i propri attori economici mediante artefizi di Stato. E, ad essere sinceri, in tale ottica siamo un po' tutti macronisti, in quanto perfino da noi, anzi: a maggior ragione da noi - serpeggia diffusamente quella visione distorta della globalizzazione per la quale il mercato è libero e bello quando consente l'incremento delle proprie esportazioni e l'aumento dei propri investimenti in altri paesi, mentre assume sembianze arcigne laddove avanzano le importazioni e nel caso in cui qualche gruppo estero - pubblico o privato che sia - decide di far convogliare le proprie risorse presso le nostre latitudini. Mettiamola così: si tratta di un liberismo a senso alterno per il quale il rapporto biunivoco, il principio di reciprocità alla base dello scambio, non viene affatto contemplato. Ripeto, anche da noi aleggia la sindrome "macronista". Basti pensare agli strali italici che si sono sollevati al solo evocare l'importazione del famigerato olio tunisino. E, appunto, parliamo di olio. Un prodotto agroalimentare in difetto di produzione nel nostro mercato interno - tradotto: la domanda è maggiore dell'offerta - eppure tanto è bastato per invocare dazi e barriere doganali varie nella convinzione che così facendo si andasse a tutelare e, peggio ancora, a valorizzare il condimento per eccellenza presente sulle nostre tavole. Come se fosse stato vano il tentativo del buon Bastiat, in un suo famoso libello, a porre in evidenza le conseguenze pressoché esiziali del protezionismo. Ciò che si vede e ciò che non si vede. Chiudersi alla competizione è un atto spesso inconsulto oltre che prodromico di tutta una serie di dinamiche inizialmente sottese ma che, nel tempo, emergono in tutta la loro virulenza: ad esempio viene a mancare quel pungolo che sollecita un costante miglioramento delle prestazioni di un'azienda - un liberale parlerebbe di "sofisticazione dell'offerta", ma tant'è - la quale, va da sé, così facendo tende a ridurre la propria efficienza. Non solo: la differente allocazione delle risorse pubbliche, come diretta conseguenza dell'invasione del centralismo statale nell'arena del mercato, comporta un indebolimento del tessuto produttivo più sano a vantaggio di quello ormai irrimediabilmente - ed economicamente - lacero e consunto. E poi, per concludere, ogni protezionismo rischia di innescare un meccanismo difficilmente controllabile ad effetto domino. Ergo, se davvero vogliamo preservare la "sovranità" delle nostre aziende allora è opportuno che attorno ad esse si vada a creare un habitat confacente alle loro reali esigenze, in termini fiscali, burocratici, infrastrutturali, contrattuali, giuridici e formativi. Fermo restando che poi al consumatore interessano esclusivamente due parametri di un dato servizio: il costo e la qualità. Se poi a far da sfondo vi è anche il tricolore allora questa è una condizione che potrebbe tutt'al più essere sufficiente a dare una maggiore soddisfazione impregnata di sciovinismo "light", ma di certo non necessaria per la conclusione di una trattativa soddisfacente. Piccola o grande che sia.

di Luca Proietti Scorsoni

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